Busto A. – “Certo che essere pronti a “migrare” sul pianeta Marte ma non essere preparati a difenderci da un batterio infinitesimale che in quasi un anno ha stroncato nel mondo milioni di vite e, solo in Italia, oltre i cinquantamila, la dice lunga sulla confusione, sulla impreparazione dell’azione politico sanitarie nella quali ci muoviamo“.
Così esordisce Antonio Maria Pecchini, scultore, riflettendo su questo straordinario momento storico, scandito dalla pandemia che ci ha cambiato le abitudini e il modo di vivere.
“Lo dico, – continua l’artista – ringraziando in primis tutto il personale sanitario, che nonostante i tanti morti lasciati sul campo e oltre ai limiti che regnano nell’attuale politica sanitaria, ha continuato a lavorare nei nostri ospedali a difesa della vita. Io, poi, persona a rischio, cerco di essere attento nel rigido rispetto d’ogni suggerimento, anche i più restrittivi. Non si può vivere bene questo tempo dell’attesa e di libertà condizionata. Nonostante le rigidi regole, si vive nella poca “libertà”, nella speranza di poterne uscire nel tempo più breve, senza l’assillo di dover accorciare mondi, territori, momenti ludici; si vive in un’apparente ristrettezza d’orizzonti così da aiutare la vita ad essere vissuta in pienezza. Quindi casa, contatti personali rinviati, abuso di strumenti comunicativi, telefono, mail, nuovi media, sempre più lontani dalla fisicità degli incontri, dall’umano bisogno dei contatti.”
La chiusura degli spazi espositivi ha penalizzato anche voi artisti che, come si sa, tramite le mostre proponete e fate conoscere le vostre opere.
“Anche in campo artistico ogni operatore è un’isola; vive della propria dimensione culturale e sociale, persegue i propri obiettivi. In una dimensione politico-culturale come la nostra è sempre più difficile operare in situazioni che non siano individualistiche; oggi poi il settore dell’arte è condizionato dal cosiddetto mercato e rimanere estranei è un po’ un isolarsi dal mondo, da quel mondo. La condizione artistica dentro il mercato ha certamente sofferto più di un battitore libero, perché mettendo in “prigione” la dimensione culturale dell’opera, persegue un percorso prettamente economico dimenticandosi che l’oggetto artistico è solo il prodotto della storia e della cultura di un luogo, e, nello stesso tempo, della riflessione su di essa di chi produce segni e dinamiche culturali attive e capaci, ad una pronta lettura, di diventare un elemento propositivo e d’aiuto per lo sviluppo delle future generazioni. Non si vive di solo mercato e l’opera non è più un valore culturale universale“.
Le opere realizzate in questo anno drammatico da cosa si riconosceranno?
“Se il mondo dell’arte occidentale continua ad essere un fenomeno a sé, lontano da una riflessione storica, è solo un prodotto che, come altri, sollecita interessi economici ma resta lontano dall’essere elemento riflessivo sulle condizioni dell’umanità. Resta un fatto estetico, resta un semplice oggetto, tendenzialmente intercambiabile lontano da quella zona riflessiva e culturale che da sempre si è portato appresso. Come mai solo gli autori del cosiddetto terzo mondo praticano un’arte di denuncia civile,realizzano, attraverso i mezzi dell’arte, situazioni così poco attrattive sul piano estetico, ma così potentemente riflessive quello culturale. Basta pensare all’iraniana Shirin Neshat o al cinese Ai Wei Wei per avere momenti e prodotti estetici che interpellano e parlano alla mente e al cuore. Le opere si riconosceranno semplicemente perché la loro oggettualità, la capacità estetica di assemblare materiali, di recuperare elementi, sono criteri organizzativi sufficienti per oggettivare le tante contraddizioni che percorrono e condizionano la nostra quotidianità. E’ un’abilità estetica capace, nel gesto artistico, di mettere a nudo le tante ambiguità che popolano le attuali società e di tenere in vita i valori che costituiscono il bene prezioso dell’umanità“.
Cosa ci lascerà questo periodo, quali strascichi o conseguenze?
“Difficile da dire, semplicemente perché, gli italiani, sono abituati a non ricordare, ad allontanare da sé memorie, le fonti di disagi, di preoccupazioni, di bisogno. Viviamo il presente. Un’abitudine nella quale siamo stati immersi in questi ultimi venticinque – trent’anni, dovuti ad una visione personalistica, di conseguenza un po’ egoistica d’ogni percorso d’esistenza, in cui meritocrazia e denaro sono state le stelle polari delle condizioni esistenziali dell’umano cammino. Ecco poi che arriva un imprevisto e microscopico batterio e il mondo si spopola, le città si svuotano. Si gonfiano solo i camposanti. Lascerà, il virus, qualche segno diverso dal presente modo di intendere il vivere? Io nutro diverse perplessità al riguardo, basterebbe guardare la storia. Abbiamo urlato “Basta Guerra!” ma il secolo che abbiamo appena passato è stato quello che ha prodotto più guerre di tutti gli altri; siamo stati immersi, soltanto pochi decenni fa, dal terrorismo, apparentemente dimenticato, anche se per altre ragioni, siamo ancora calati in situazioni analoghe. Mondo di ricchi e mondo di poveri; nonostante siano molti gli sforzi a difesa della povertà, la povertà aumenta e i ricchi si irrobustiscono. Come non vedere che il problema dell’emigrazione è solo la punta dell’Iceberg di questa umana situazioni..!!!. Non ho perciò molta fiducia nel possibile cambiamento, gli artisti sono persone e come tali vivono di sentimenti, di solidarietà, ma qualcuno anche di indifferenza“.
Come vede il futuro nell’arte?
“L’arte è qualcosa che è insita nell’uomo. Qualcuno sosteneva che il fare artistico è la prima filosofia che si è data l’umanità e noi sappiamo quanto sia stata necessaria, per la costruzione di mondi, la riflessione filosofica che persiste a valle d’ogni situazione umana; per questo motivo non può non esserci un futuro per il mondo dell’arte. E’ nato nelle caverne, si è fatto racconto sulle pietre, ha condizionato e affiancato luoghi e civiltà, si è dato delle regole e le ha modificate nel tempo seguendo l’andamento delle culture, persiste e resiste nel tempo grazie alle sue continue innovazioni, che altro non sono se non l’oggettivazione di un pensiero in grado, attraverso la forma, di trasmettere sensazioni e di parlare ad ogni uomo. Morirà soltanto se verrà meno l’uomo“.
E. Farioli