Milano – Per chi è di Varese la visita alla mostra “Le Signore dell’arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600″ dovrebbe incominciare quasi nelle ultime sale, precisamente da quella delle
Fioranti dove è lì da ammirare una tela proveniente dalla Fondazione Molina di viale Borri. Raffigura una Ghirlanda di fiori con scena sacra e in essa la Vergine, il Bambino e i santi appaiono quasi un pretesto per “variare” con straordinario virtuosismo sul tema dei fiori scelti fra le specie più varie, dai colori di crepitante ricchezza, freschi e luminosi di rugiada. Con altri il dipinto palesa tutta la perizia della Vicenzina, alias Francesca Volò Smiller, specialista nel dipinger verdure e fiori a Milano con il fratello Giuseppe e le sorelle Giovanna e Margherita, quest’ultima più nota col cognome Caffi, quello del marito. Non fu solo la Vicenzina ad imporsi dipingendo “cose di natura”; già prima del 1630 e della peste che se la portò via, ne aveva dipinte, in contemporanea col Figino, Fede Galizia, ma le sue erano “nature morte attente, ma come contristate” a dire di Roberto Longhi, specchio dei tempi severi evidenti ancor di più nella sua tela con San
Carlo in processione penitenziale che dal Museo del Duomo ha fatto solo pochi passi per giungere alla mostra.
Non sono tuttavia solo le naturamortiste e le fioranti a farsi conoscere e apprezzare nella mostra (aperta fino al 21 luglio; catalogo Skira) curata da Anna Maria Bava, Gioia Mori e Alain Tapié, anzi! Da quel che si può vedere la maggior parte delle “signore” affrontò spavalda, e sicura delle proprie capacità, soggetti sacri e mitologici, scene di genere, ritratti anche da parata, affiancandosi, talvolta protagonisticamente nell’ambito della bottega, ai padri o ai fratelli. E proprio sul versante familiare mi piace segnalare la bolognese Elisabetta Sirani, morta “con esecrando tradimento di veleno” a ventisette anni, che sopravanzò il padre Giovan Andrea, uno dei tanti, e non dei migliori, seguaci di Guido Reni. Il suo Amorino trionfante che veleggia sul mare increspato reggendo una
madreperlacea conchiglia su cui brillano sei perle, allusione allo stemma dei Medici, è di impagabile malizia, e la sua Maddalena (Parigi, Louvre) possiede un’esuberante floridezza esibita in sensualità profana. Prima di lei, nella “Felsina pittrice” s’era già imposta sul padre Prospero, Lavinia Fontana “così dolce, e pratica nel colore, che gareggiarono le donne a trattenerla, accarezzarla e servire per avere dalle sue mani i ritratti loro”, come si legge nell’”Abcedario Pittorico” di padre Pellegrino Orlandi. Proprio tutto da gustare, anche nell’esito dinamico prebarocco, il suo dipinto su rame con Galatea e amorini che cavalcano onde della tempesta su un mostro marino. Lavinia fu in contatto con Sofonisba e le altre quattro sorelle Anguissola, cremonesi, tutte dedite alla pittura. Ad eccellere fu
lei, apprezzata per ritratti anche per la corte spagnola di Filippo II e, fin da Michelangelo, per i disegni da dove emergevano i moti dell’animo. Si cimentò anche nelle pale d’altare e in mostra, dopo il restauro, è presente quella da lei offerta ai padri conventuali di Paternò dopo la morte, durante un assalto di pirati algerini, del marito, il nobile Fabrizio Moncada. È dedicata alla Madonna dell’Itria (dal greco Odighitria, vale a dire che indica la strada) e la pittrice si effigiò nel volto della Vergine seduta su una sorta di catafalco approdato alla riva del mare di Sicilia e trasportato su al paese da due monaci tanto oppressi dal peso che sembrano non farcela proprio più.
Arrivati a questo punto lo spazio non permette più di discorrere su tutte le trentaquattro “signore dell’arte” (alcune – lo ammetto – a me proprio sconosciute) che seppero farsi valere tra Cinque e Seicento, e non solo nella pittura, visto che Vasari già nell’edizione delle Vite del 1550 aveva scritto un panegirico su Properzia de’ Rossi scultrice Bolognese “del corpo bellissima” e “giovane virtuosa non solamente nelle cose di casa, come l’altre, ma in infinite scienzie che non che le donne, ma tutti gli uomini l’ebbero invidia”.
Un cenno tuttavia vorrei farlo però a Orsola Maddalena Caccia, la figlia del Moncalvo, badessa delle Orsoline nel convento fondato dal devoto – anche in pittura – padre, prolifica autrice di tele sia di soggetto sacro sia di nature morte e donna colta, in contatto epistolare anche con l’infanta Margherita di Savoia. Sempre per stare in ambito piemontese, ma in questo caso non per nascita (era di Ascoli Piceno), ma per il lungo soggiorno nella capitale subalpina dopo l’altro alla corte granducale di Firenze, un cenno ancora per me lo merita la Giovanna Garzoni, abilissima a riprodurre frutta e ortaggi e insetti con attenzione quasi scientifica e minuzia da miniaturista, altro ambito che del resto la vide attiva.
Ovvio che a Palazzo Reale non poteva mancare l’Artemisia con le sue donne “che sì sapevano prendere in mano le situazioni”, giusto per citare Arbasino; tutti però abbiamo letto (ma non riletto) il libro della Banti e magari anche il “Gentileschi padre e figlia” di Longhi, il di lei consorte, e poi abbiamo ancora in mente le sue opere viste con dovizia a Palazzo Reale nel 2011. Così per la pittrice di rinomata e indiscussa maestria basta solo segnalare la notizia della scoperta di un’altra sua Cleopatra custodita dalla Sursock Palace Collection di Beirut. La drammatica esplosione al porto di codesta città l’anno scorso l’ha ferita gravemente. Merito della mostra sarà quello di farla tornare in Libano restaurata.
Giuseppe Pacciarotti