Questione di coerenza – Per non smentire la sua fama, Nobuyoshi Araki è riuscito a rendere un evento anche la sua ultima presenza in Italia. Non tanto per l'ardimento in sé, quanto per non smentire la sua idea di fotografia che è un tutt'uno con la sua esistenza. E' la sua stessa vita che si fa icona da esibire, fluido continuo, rapporto che non smette mai. Soprattutto con la donna.
L'odalisca – La sua modella privilegiata, nonché compagna di vita, Kaori si presta allo show, come una condizione naturale. Nella serata inaugurale della mostra presso l'Istituto nazionale per la Grafica a Fontana di Trevi a Roma, ha danzato per il pubblico fino a spogliarsi completamente. Ovazioni dei presenti e lui, l'Araki delle meraviglie a riprenderla con la sua fedele macchina fotografica. Inutile dire che quelle immagini, dalla sera stessa, hanno fatto parte integrante e vitale della mostra in corso.
L'antologica – La star dell'obiettivo giapponese, da tempo divenuto un must negli ambienti che contano e si occupano della migliore fotografia internazionale, è di nuovo in Italia per un doppio appuntamento espositivo che ripercorre l'intera sua carriera di artista visionario: a Roma, appunto, dove ritorna nella stessa sede a distanza di due anni della innovativa esposizione The Ancient Sound of the Image, evento al centro dell'edizione di quell'anno del Festival di Fotografia; e a Torino dove Araki Gold, questo il titolo dell'antologica, aprirà i battenti in aprile presso l'Archivio di Stato.
Curatore dell'esposizione e del catalogo Skira che l'accompagna è il varesino Fillippo Maggia, tra i primi e più fedeli 'traghettatori' del giapponese nel panorama espositivo e nel mercato italiano. Il critico che da Somma Lombardo, dove vive, non tralascia di confrontarsi con alcuni dei più discussi protagonisti della storia della fotografia, oriente, occidente del mondo, fotografia pionieristica e quella attuale.
L'"uso" della donna – Sua dunque anche l'idea di dare di Araki una visione a tutto tondo, mostrandone nell'integra complessità le pieghe di un lavoro che è da sempre ai confini della provocazione, al limite del pornografico, eppure così di fondo radicato nel rispetto della propria cultura orientale. A partire dall'uso che fa della donna. Di cui non ne fa solo un oggetto danzante a beneficio della platea, ma leit motiv seminale della sua indagine. Nella serie Bondages, ad esempio, il ciclo che gli ha dato più di altri fama mondiale. Donne contorte, costrette, in catene, cinture, penzolanti da travi, contorte su letti, in posizioni innaturali di immediata violenza. Ma non c'è
violenza;piuttosto trascrizione di un ruolo, quello di geisha del tutto ovvio, naturale per l'occhio giapponese; non lo sguardo dominatore, ma la mente allenata a guardare il corpo femminile come un oggetto di bellezza armonica, disponibilità fisica, prestazione di stile, quasi da azzerarne la carica di violenza erotica.
Divisa per tappe, la mostra si diceva, tocca tutto il percorso dell'artista. Da Ginza, il ciclo degli anni sessanta in cui un nuovo Giappone, ritratto per le strade di Tokyo, vengono ripresi dal suo obiettivo, come tranche de vie, di un paese alle prese con la rinascita dello shock posto atomico, ai ritratti delle nobili famiglie giapponesi, eredi della nobile tradizione dei Samurai, al ciclo più mondano di Famous People, in cui Araki non ha remore nell'interpretare la cifra artistica dei personaggi che posano davanti a lui, da Kitano alle stelle del rock. Una trentina di immagini fanno poi parte della serie Families, ritratti invece di gente comune, ai Color Rays, la Tokyo notturna, gli altrettanto celeberrimi Flowers, fino al turbinio di polaroid, ben 5000 che fanno avvicinare agli ultimi esiti della sua ricerca, quella più concettuale. La fotografia inesausta rappresentazione della propria vita che non si ferma. Cospicuo il numero degli inediti, per un autore la cui produzione, enorme, fluida, pulsante – "fotografare è essere innamorati", è una delle sue frasi celebri – è ancora in buona parte da scoprire.