Una scaletta poco organizzata e forse un coinvolgimento non proprio a tappeto delle realtà che di cultura non parlano ma vivono, costruendola giorno per giorno.
Sarà stato forse per questo, o per quella vorace frenesia pre-elettorale che si ciba in modo bulimico di tavole rotonde. Fatto sta che dall'incontro intitolato: "Varese è cultura?" – titolo randagio e un po' debole, per la verità – non si è cavato fuori un ragno dal buco.
La platea riunita sotto il "tetto provvisorio" dell'Apollonio poco ha comunicato con alcuni dei candidati alle elezioni regionali presenti (sono intervenuti Ambrogina Zanzi, Lombardia Civica -Albertini; Alessandro Alfieri del Pd; Marzia Giovannini di Sel; Francesca Brianza della Lega Nord; Carlo Baroni, non candidato, che ha sostituito Raffaele Cattaneo).
I primi dati concreti sono arrivati solo da Adriano Gallina: i tempi si prefigurano davvero bui per la cultura visto che, da qui al 2015, il taglio per il settore, nella nostra regione, toccherà quota 70%. Una vera sentenza mortale che coinvolge anche il campo del turismo, tangente al primo comparto, mortificando tanto l'offerta quanto la domanda.
L'industria dell'arte e dello spettacolo dal vivo rappresenta il 4,9% del Pil del nostro paese, ma all'orizzonte sono sempre più miseri i finanziamenti pubblici, le opportunità professionali per i giovani e le effettive collaborazioni con il terzo settore.
A ciò va aggiunto che queste realtà sono ancora completamente dipendenti dai finanziamenti pubblici e poco abituate a pensare in un'ottica aziendale e di marketing (perché non si parla di quanto nei Teatri italiani e in alcuni Musei si stia facendo largo il crowdfunding?)
"Varese – si è detto – potrebbe investire sulla storica vocazione cinematografica, puntando a costituire una cabina di regia per dare valore alle diverse manifestazioni e non preoccupandosi solamente di elemosinare fondi".
Busto Arsizio ci proverà: collaborazione è la parola d'ordine per la città che ha messo nero su bianco la trama e l'ordito della stagione culturale cittadina.
"L'altra faccia della medaglia" è il titolo scelto per l'undici edizione del B. A. Film Festival in programma dal 13 al 20 aprile.
Ma torniamo all'Apollonio: perché quando si parla di cultura si parla solo di saldo passivo?
La complementarità pubblico/privato, che implica una forte apertura all'intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa e non presentarsi solo in episodi isolati.
Può nascere solo se è fondata sulla condivisione con le imprese e i singoli cittadini del valore pubblico della cultura.
In primo luogo, non è sembrato appropriato ai molti "addetti ai lavori" presenti all'incontro di Varese domandare un colloquio con i candidati a pochi giorni dalle elezioni, in una imperante verbosità di una campagna elettorale che parla d'altro.
I programmi – di tutti i colori, si badi bene! – presentati per il voto del 24 e 25 febbraio, del resto, confermano: la cultura è per tutti un tema secondario.
Solo qualche accenno, nel segno del buon senso: l'«Italia della bellezza, dell'arte e del turismo», la nota «scelta strategica di puntare sulla cultura, integrando arte e paesaggio, turismo e ambiente, agricoltura e artigianato, all'insegna della sostenibilità e della valorizzazione delle
nostre eccellenze». Tra i punti irrinunciabili dei programmi (Europa, democrazia, lavoro, uguaglianza, libertà, sviluppo sostenibile, diritti, beni comuni, responsabilità, famiglia, imprese, federalismo, trasporti, sicurezza, laicità, ritorno alla lira) i beni culturali non ci sono.
Anzi, non c'è un solo accenno ai musei, alle città d'arte, ai restauri, ai siti archeologici, alle gallerie, alle biblioteche… Niente.
Di recente si è affermata, invece, la marginalità della cultura, del suo Ministero, e dei Ministeri che se ne occupano (Beni e Attività Culturali e Istruzione, Università e Ricerca) considerati centri di spesa improduttiva, da trattare con tagli trasversali.
Eppure si fa – solo – un gran parlare – appunto – di cultura. C'è, addirittura, chi, in passato – ma mica tanto passato – ha sostenuto che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco» decuplicando (ne abbiamo solo 47 su 936) per vanità patriottica la nostra percentuale.
La morale è: ma siamo davvero sicuri di sapere di che cosa stiamo parlando?
Forse per farsi chiaro, il discorso deve farsi più che politico, strettamente economico. Niente cultura, niente sviluppo. E allora, forse, i ruoli si invertirebbero e gli operatori culturali smetterebbero di essere semplici spettatori, diventando invece protagonisti.