Chiediamo un po’ a caso a tutti. Poche le risposte frammentate, ma non ci arrendiamo. Cerchiamo invano di farci capire: ognuno indica una direzione diversa.
Chissà se c’è davvero una chiesa, in questo luogo così sperduto da far pensare che siamo i primi uomini occidentali a metterci piede.
Quello con il cappello sembra un personaggio autorevole, tutti lo salutano: domandiamo a lui.
Io sono il prete! Vi porto io alla chiesa!” Risponde fiero e convinto del suo ruolo, nonostante, dall’abbigliamento, non avremmo mai potuto intuirlo.
Si auto-invita a salire sul nostro fuoristrada e ci indica una pista approssimativa di terra battuta in mezzo alla foresta, gesticolando animatamente.
Dopo qualche minuto capiamo che siamo arrivati, perché apre la portiera e cerca di scendere, ovviamente mentre l’auto è ancora in movimento.
Colui che abbiamo raccolto è proprio il Padre della missione. Ci precede oltre la staccionata e ci mostra con orgoglio la sua chiesa che in realtà, per ora, è un cumulo di mattoni tutti diversi. Le pareti sono già quattro, ma sono asimmetriche e appena abbozzate. Il tetto è a terra, di lato: fascine di paglia intrecciata ancora da legare insieme. Mancano le sedie, l’altare, il crocifisso e tutto quello che corrisponde alla nostra idea minima di “chiesa”. Con incredibile immaginazione ci spiega che, una volta finita, potrà contenere più di cinquanta fedeli!
Per ora di discepoli ce ne sono solo sette e non avendo altro a disposizione, stanno pregando e cantando in una piccola radura davanti al misero cantiere. Chiediamo il permesso e ci uniamo a loro nella danza. Poco dopo, avendo fatto una magra figure, facciamo segno che è tardi e dovremmo andare ma il padre insiste nel farci vedere la sua casa. Lo seguiamo inoltrarsi a piedi nudi nella boscaglia in mezzo agli orti: non c’è nemmeno un sentiero che conduce all’abitazione. Però è l’unica casa in muratura del villaggio, le altre sono capanne di fango e paglia, costruite con la medesima tecnica, forse da qualche migliaio di anni.
Sembrano divertiti della proverbiale mancanza di senso del ritmo dell’uomo bianco.
Entrate, non dovete avere fretta…” Che cosa avete da fare?”
Già, che cos’altro abbiamo da fare? All’interno c’è un’unica stanza, spoglia ma dignitosa. Ci fa sedere su di un’asse di legno e ci offre un refresco, che è poi una bibita, calda, custodita come un tesoro nello scaffale più alto.
Ci ricordiamo d’un tratto della nostra missione, per la verità parecchio strana: il Padre fatica a comprendere. Sa poche parole in portoghese, pochissime in inglese. Vorremmo scoprire se una copia del Vangelo è arrivata fin qui. Siamo curiosi di sapere come si possa divulgare il Cristianesimo senza un testo, che gli abitanti del villaggio possano capire.
Il prete ci pensa un po’, poi si illumina in volto, si avvicina alla mensola più bassa, sulla quale è collocato un unico libro. Lo tiene tra le mani come una reliquia, con la solennità che solo gli africani riescono a dare agli oggetti per noi più comuni.
È un Vangelo in lingua Swahili. Chissà dove lo ha recuperato, chi lo avrà tradotto.
È tutto sottolineato fitto, pieno di appunti indecifrabili e consumato dal tempo.
Il Padre lo apre dove aveva posto un segno, indica una frase. Insiste: vuole dirci qualcosa. Ma noi non comprendiamo. Lui sorride.
Tutt’intorno alla casa, intanto, sono sbucati parecchi bambini. Ci guardano immobili. Qualcuno meno timido si avvicina e prova a toccarci. Sì. Siamo veri. Siamo uguali a voi.
L’Africa è un continente che si muove. Lentamente, ma si muove.
I fedeli aumenteranno, il villaggio crescerà, tutti i bambini dovranno imparare a leggere, io per ora sono l’unico che può insegnare ma cercheremo un maestro. A proposito: qualcuno di voi è un maestro? Se i bambini saranno troppi faranno a turno, due turni la mattina e uno il pomeriggio, quando il sole non è troppo caldo. Poi ci sarà bisogno di un nuovo pozzo per l’acqua, magari una strada e sì! Vorrei costruire una casa per tutti, come è scritto qui nel Vangelo!
Questo credo avrebbe voluto spiegarci il padre. Se solo fossimo riusciti a capirci.
Quanti di noi hanno una missione così importante da compiere, nella vita?
Siamo stati ad ascoltarlo ugualmente, per più di un’ora, imparando dal suo entusiasmo e dalla sua ospitalità,senza aver compreso una parola di quello che diceva.
Ora mi è chiaro anche il significato di questa giornata: la bellezza di “perdere tempo”.
Per oggi avevamo concordato un’escursione in barca per l’osservazione delle balene che però, a causa del mare mosso, era stata rimandata e quindi ci siamo ritrovati a girovagare per il villaggio, imbattendoci in questo incanto.
Scorgo il sole salutarci all’orizzonte dietro gli alberi. Il tramonto a queste latitudini dura solo pochi istanti.
Comincio a preoccuparmi perché la strada per il ritorno non è ben tracciata e con il buio sarebbe ben non perdersi nella foresta.
Maiora premunt1, salutiamo il padre, ringraziamo e a me viene spontaneo girare il polso per guardare l’orologio.
Sorrido. Credo di non aver ancora capito niente di questo continente.

1Ci sono cose più importanti che urgono.

Il Viaggiator Curioso,
Tofo, Mozambico, 12 agosto 2014