Dopo l'evento ospitato a Cassano Magnago vi proponiamo un'intervista fatta prima dell'esecuzione della performance dell'artista Bory, accompagnato dal critico Jacques Donguy. Un'occasione per capire la poetica che sottende e lega le opere dell'artista.
In questi giorni di intenso lavoro Bory ha realizzato molte opere che lascerà alla collezione di Villa Buttafava, opere in cui possiamo leggere molti degli elementi chiave della sua ricerca.
Potrebbe illustrarci come ha realizzato questi lavori e quali tematiche ha affrontato?
J.F.B: "Nei miei lavori utilizzo molti oggetti differenti: Il libro, elemento essenziale della letteratura e soggetto ricorrente nella poesia visiva, le lettere, parti costitutive del linguaggio e oggetti che producono dei suoni, come il pianoforte. In questa occasione, ho eccezionalmente utilizzato una macchina da cucire che produce un rumore particolare, una macchina da cucire marcata Singer che, in inglese, significa 'cantante'. Ho utilizzato molti elementi legati al suono perché mi interessa il linguaggio che, in fondo, è sempre legato a dei suoni".
Che significato conferisce alla pratica, ricorrente nelle sue opere, della doratura?
J.F.B.: "Si tratta di una uniformazione; la mia idea è di fare un poema tridimensionale in cui gli oggetti che utilizzo vengono tutti ricoperti con una patina d'oro per donare una completezza all'opera. Ogni oggetto che utilizzo è come un testo, ci sono dei testi grandi-lunghi, come il pianoforte, e dei testi più corti; in ogni caso, ritorna sempre l'idea del testo, ma in tre dimensioni. Secondo me oggi la scrittura lineare è decaduta, ha delle difficoltà, perchè la scrittura lineare non raggiunge i tempi veloci del computer e degli altri strumentini di comunicazione attuali; nei miei lavori si vede un'immagine e si comprende un'emozione, uno choc mentale; realizzo anche dei collage in due dimensioni, ma è solo nella tridimensionalità che si crea brutalmente un'immagine: è una parola che diviene realtà.
Dunque le sue opere sono come dei libri aperti, in cui tutto il racconto è visibile, secondo un tipo di visione sintetica?
J.F.B: "Esattamente. Quando parlo, le parole scompaiono. Scrivere un libro è il risultato di un'azione verbale, così come le mie opere sono il risultato di una azione, un assemblaggio di impressioni, come una sorta di orgasmo del linguaggio".
Questa serie di lavori è legata tematicamente e concettualmente alle opere che ha realizzato in passato?
J.F.B: "Si, certo. Quando avevo vent'anni scrivevo e scrivo tuttora, parallelamente all'opera di poesia visiva, dei poemi tradizionali, ma sentivo che c'era una barriera tra la scrittura tradizionale e le arti visive; così, negli anni Settanta, ho avuto l'idea, con altri poeti visivi italiani, di far penetrare il linguaggio, la letteratura e la poesia, facendo delle letture di poesie nelle gallerie d'arte, che erano il solo luogo dove potevamo esprimerci; e allora abbiamo ripreso la tradizione dell'avanguardia di Marinetti e del Dadaismo: la poesia tradizionale è completamente tramontata, anche se continua".
Nelle sue opere compaiono soldatini in miniatura e strumenti relativi alla guerra; che cosa intende esprimere con questi elementi?
J.F.B: "Sono l'espressione delle contraddizioni delle ideologie che circolano nel linguaggio nel mondo; è una guerra di parole; le ideologie sono sempre state una guerra di parole, una battaglia per dominare gli altri; oggi più che il marxismo, è il neocapitalismo o postcapitalismo che tende a dominare le cose con un linguaggio assurdo. È una sorta di duplicazione del pensiero estremamente pericolosa; la mia è una specie di rivolta per esprimere lo scandalo di questa espressione , un linguaggio fatto di ordini impartiti.
E le macchine da scrivere, hanno un significato particolare?
J.F.B: "Certo! Le macchine da scrivere sono uno strumento per utilizzare il linguaggio e rappresentano la prima idea della funzione moderna del linguaggio, la dimostrazione che il linguaggio può diventare uno strumento di terrore. Con l'invenzione della macchina da scrivere inizia la sovra-produzione del linguaggio. Le macchine da scrivere segnano l'inizio di una specie di ‘fascismo' del linguaggio. E così i libri: oggi c'è una produzione esagerata di libri, ogni giorno vengono pubblicati circa 75 romanzi".
J.D: "E' un po' il concetto de "La Colonia Penale " di Franz Kafka, dove una particolare macchina da scrivere scrive la condanna dell'accusato sul suo cuore, sulla sua pelle".
Quando è nato questo suo interesse per la parola, per il linguaggio?
J.F.B: "Quando ero giovane, come dicevo, scrivevo in modo tradizionale e vedevo che tutti scrivevano così. Arrivavo dalla guerra d'Algeria e la Francia mi sembrava un paese strano, molto vecchio, arcaico. Nella guerra accadevano cose strane con le informazioni: ai soldati venivano dette delle cose, ma si faceva il contrario; questo era molto strano per me; capivo che il linguaggio nascondeva qualche cosa di distante dalla realtà. Sono cose che oggi si capiscono, ma allora, quando avevo vent' anni, era molto difficile comprendere che quella guerra coloniale era una finzione del governo francese per mettere la mano sul petrolio dell'Algeria. Quando scrivevo mi sembrava di scrivere un ‘discorso dello schiavo' e non volevo. Allora decisi di esprimermi in un altro modo. Un giorno fui invitato da alcune persone a Fiumalbo, un posto che si trova sugli Appennini con Adriano Spatola e là ho incontrato molta gente che mescolava la pittura ai poemi. Tra questi Eugenio Miccini e Adriano Spatola. Così ho cominciato prima a fare dei collages a due dimensioni con delle lettere, poemi che ricordavano le "parole in libertà" futuriste; poi, a poco a poco, sono arrivato ad espressioni più efficaci, negli anni '70, '80, quando ho iniziato a fare dei poemi in tre dimensioni, delle sorte di sculture".
Cambiando discorso, come è nata la collaborazione con Giovanni Orsini, responsabile dell'evento?
J.F.B: "Mi ricordo che ci siamo visti a Parigi, dove ci siamo parlati. In seguito ci siamo rivisti diverse volte: insieme, abbiamo realizzato le ‘cravatte-oggetto', create dal ricamificio di Orsini: suo figlio Jacopo che se n'è occupato è stato magnifico; tutto è stato fatto esattamente come desideravo. Poi ci siamo visti da un altro collezionista, Berardelli, a Brescia. È stata in quella occasione che abbiamo deciso che sarei venuto qui a fare queste opere. Quello che è interessante, in questa collezione, è che un industriale faccia fare delle opere in collaborazione con la sua industria; sono rare le persone che fanno questo, ce ne son state nel '900 e nell' '800. In questo modo l'arte rappresenta qualcosa che succede nell'industria; quindi son stato contento di questa iniziativa".
Ci può dare qualche informazione sulla performance di Villa Buttafava?
J.F.B: "L'idea è che ci possa essere un'icona suprema e l'icona suprema è la forma del libro, il dio del linguaggio, il dio arcaico del linguaggio; realizzo una tela, direttamente davanti al pubblico, con una rappresentazione di libri. Di solito non faccio performance; ci sono molti artisti, poeti visivi che fanno delle performance con la voce, ma io preferisco di no.
Poi si vedrà, non si sa ma (…) chissà, magari, per l'inquietudine, potrei scappare".