Hanno visto la luce per le Edizione del Mulino di Bologna nel 2018 i cinque corposi volumi dell’Opus Montanum di Luigi Zanzi e molte persone sicuramente li avranno già visti e letti, ma a me fa piacere parlarne ancora. Riuniscono ben 102 saggi di questo studioso varesino difficile da incasellare: certo avvocato e docente universitario, prima a Genova e poi a Pavia, ma anche – e mi verrebbe da dire soprattutto – “filosofo e alpinista, pensatore eclettico e scrittore fecondo”, condividendo tutti questi interessi, a seconda, con Ludovico Geymonat, Adolphe Rey e Reinhold Messner.
Son volumi questi dell’Opus Montanum non da leggere con sistematico impegno: è più allettante, almeno per me, togliere dal cofanetto che li contiene una volta l’uno, una volta l’altro, scegliendo poi tra i saggi in esso contenuti. In questo modo ci si rende perfettamente conto anche delle straordinarie e multiformi qualità di scrittura di Zanzi, capace di variare, come un provetto musicista o un virtuoso di violino, sul tema sempre affascinante e tanto complesso della montagna.
Si potrebbe incominciare magari con “la filosofia del camminare” (III, pp. 391-397), avendo come compagno Goethe per assaporare “la pazienza e la calma dell’indugio osservativo [che] non possono avere altro ritmo che quello del cammino a piedi” o, se si vuol andare all’avventura, Bruce Chatwin, “con quel senso di libertà che fa riscoprire il nostro passato nomade”. E poi, estraendo dal cofanetto il secondo volume, interessarsi della storia dell’alpeggio (pp. 435-479) che non è parte solo della civiltà rurale ma, in tutto, dentro la
storia della montagna “in silenzio…di cose, di gesti e di opere che hanno lasciato una impronta nel territorio…con reliquie che vanno lentamente disfacendosi nella rovina del tempo”. Avvincente rivivere poi la storia epica (IV, pp. 623-632) di Walter Bonatti-K2: un’eredità ormai inscindibile, dove Zanzi è stato parte in causa con Fosco Maraini e Alberto Monticone per ristabilire la verità avversa a quella redatta da Ardito Desio. Diventa un autentico diletto, a cui non si può rinunciare, conoscere di più, molto di più, delle montagne che ci incantavano fin da bambini (e, perché no?, anche ora) a partire dal Monte Rosa, “una lama d’aratro che si insinua verso le terre, fertili di grano, di uve e d’ortaggi” della pianura, “un ghirigoro seghettato”, famigliare perché lo scorgiamo ogni giorno dalle nostre case e ci fa star lì: in silenzio a pensare.
Tutto da approfondire il primo volume dal titolo Walser: un paradigma dell’invenzione dei montanari, dove Zanzi studia con amore questo popolo in tutta la sua complessità antropologica, culturale, linguistica, giuridica e ambientale. Un popolo, quello dei Walser,
“protagonista fondativo e custode di quel grande flusso vitale che gravitava attorno al Monte Rosa lungo il doppio giro della grande via della cornice (con Macugnaga – Z’Makamà – al centro) ma che da lì sciamava in altre valli, anche lontane, con le sue regole, le sue tradizioni, la sua spiritualità”.
Una spiritualità rafforzata dai pellegrinaggi verso la vetta dell’Altissimo (V, pp. 275-284), dove entrano in gioco i Sacri Monti “legami di frontiera religiosa, d’ambiente naturale, di paradigma culturale, di cantiere d’arte”. Da leggere le impressioni dei “viaggiatori per diletto” (V, pp. 287-309) sulle faticose salite, di cappella in cappella, confusi tra i devoti che bisbigliano “oh bel” mentre guardano gli affreschi spettacolari e le statue coloratissime che le popolano. Certo questo saggio, ma anche quello dove Zanzi scrive del viatico per un pellegrinaggio d’arte e spiritualità ai Sacri Monti prealpini (V, pp. 539-568), una sintesi, certo complessa, ma in tutto illuminante, sulla “invenzione” di questo paesaggio sacro che trova nell’ascesa al monte la chiave per far distaccare l’uomo dagli affanni e dalle miserie quotidiane, facendolo vivere, almeno per un giorno, “fuori luogo”, in un ambiente dove tutto è luminoso e bello, un ambiente che dà sicurezza e protezione di cui allora come oggi si sente, forte, la necessità.
Giuseppe Pacciarotti