Tra le particolarità di Otto spicca la vetrina d’arte: ogni mese nella vetrina a sinistra dell’ingresso viene esposto un artista, ma non si accettano candidature perché è l’artista precedente a nominare il successivo. Ad ottobre il locale ha ospitato Pooya Razi, con Unititled del 2015, opera facente parte della serie “The interval”. Razi è un giovane artista visuale, classe 1984, che vive e lavora a Tehran. Laureato in Pittura, è anche poeta e scrittore di brevi racconti. Il suo primo film d’animazione, dal titolo The Noise, è stato ispirato da un litigio tra vicini avvenuto all’interno di un complesso residenziale. Flash Art Magazine ha descritto i suoi lavori – che sono stati esposti a Tehran, Parigi, New York e Dubai – come esplorazioni “della poesia della psiche umana”. Otto si caratterizza anche per due gigantografie appese: da un lato la mappa di Lampedusa, dall’altro quella di Kobane in Siria. Ma perché i fondatori del locale hanno scelto proprio questi due luoghi? L’isola italiana appartenente all’arcipelago delle isole Pelagie, a metà strada tra l’Africa e la Sicilia, fino a pochi anni fa era conosciuta principalmente perché luogo di nidificazione delle tartarughe, mentre oggi è diventata il punto di approdo vagheggiato da migliaia di profughi disperati che solcano il Mediterraneo su improbabili barconi, spesso ingannati da avidi scafisti. Kobane è una piccola città del nord della Siria dove convivevano curdi, arabi, turcomanni e armeni, diventata, suo malgrado, snodo fondamentale nella battaglia contro l’ISIS. Sono 400.000 i profughi rifugiati nella vicina Turchia, prima che l’orgoglio dei curdi, nel gennaio 2015, riuscisse a sconfiggere le bandiere nere dell’esercito islamico.
Perché andare da Otto quindi? Per mangiare i quadrotti tanto rinomati? Per respirare l’aria di Chinatown? Non solo. Nel locale di Via Paolo Sarpi si scoprono anche artisti emergenti e i sogni nel cassetto scritti dai frequentatori di Otto. Ma soprattutto ci si sente a casa.
Eleonora Manzo