È uno di quei libri che piace tornare a consultare ogni tanto, anche per avere conferme – o smentite – che quella imboccata sia la strada giusta. Era il 2002 quando uscì Italia S.p.A. di Salvatore Settis. Sembra una vita fa.
All'indomani dell'inserimento dei siti "nostrani" di Castelseprio-Torba e dell'Isolino Virginia nella prestigiosa lista stilata dall'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, si sente parlare con rinvigorita insistenza di "gestione" e di "marketing territoriale", di volontà di rilanciare il patrimonio storico-artistico come "manifattura culturale". Ben inteso che l'immobilismo o gli allarmismi su una fruizione più allargata e condivisa di musei, siti e monumenti non abbiano prodotto mai nulla di buono, resta però qualche dubbio su possibili rigurgiti di quella temuta idea dell'arte come "petrolio d'Italia", una concezione ipocrita e pericolosa, smascherata da Settis e ridotta sotto i riflettori.
Posto che la cultura ha un valore e più difficilmente ha un prezzo, o una stima che le permetta di essere alienata, il termine stesso di "patrimonio culturale" ha in sé un rischio strisciante e perverso: quello della sua unica traducibilità in termini monetari. Spiegava Settis: "Le intenzioni erano ottime: puntare sul valore monetario del patrimonio culturale per ottenere più finanziamenti per la tutela. (…) "Questo è il paese dei miliardi!" scriveva nel 1908 un funzionario ministeriale a Corrado Ricci, direttore
generale delle Antichità e belle arti, alludendo alle enormi potenzialità del patrimonio culturale italiano. "L'arte è il petrolio d'Italia", si affermò ripetutamente in dibattiti parlamentari degli anni fra le due guerre. Per ragioni che hanno a che fare con il crescente peso dell'economia nella vita pubblica e nel discorso politico (non certo solo in Italia), questo secondo argomento (economico) prevalse gradualmente sul primo (istituzionale e culturale) (…) Ancor più chiaro fu il segnale quando, nel 1986, l'allora ministro del Lavoro Gianni De Michelis promosse, con un coinvolgimento marginale e inefficace del ministero dei Beni culturali, una confusa iniziativa di catalogazione informatica che fu lanciata con lo slogan di "Giacimenti culturali" (spendendo, quasi del tutto a vuoto, ben 600 miliardi di quegli anni) (…) La metafora dei "giacimenti culturali" è indicativa: che cos'altro è il nostro patrimonio culturale, se non passivi "giacimenti", risorse non sfruttate in maniera adeguata? Ed ecco intrepidi ministri avventurarsi alla scoperta di questi nuovi pozzi di petrolio, ansiosi di "sfruttarli" nel modo migliore si capisce per il bene del Paese, l'occupazione giovanile e così via".
Ecco il pericolo: non sia mai che valorizzazione faccia rima con erosione o spremitura dei giacimenti culturali. Anche a casa nostra.
Non è vero che non cambierà nulla dal giorno dell'investitura UNESCO per i siti di Castelseprio e dell'Isolino Virginia. Il rischio che striscia silenzioso è, al contrario, quello che i beni culturali vengano considerati come oggetti, ognuno col suo bravo cartellino col prezzo. E nulla di più.
"Il valore venale del patrimonio culturale – spiegava Settis – anziché essere un argomento per attirare sulla sua gestione e tutela nuovi e maggiori investimenti, è diventato esso stesso qualcosa da investire per altri fini. I beni culturali, da patrimonio su cui investire, sono gradualmente diventati una risorsa da spremere e da sfruttare per altri scopi".
La provincia di Varese oggi si segnala, tra i territori nazionali, come uno fra i più ricchi di siti UNESCO, un patrimonio da conservare perchè non va dimenticato che la valorizzazione non può essere disgiunta dalla conoscenza e dalla conservazione.