Nello studioNello studio

"Sono cresciuto nella bellezza", ammette Piero Cicoli. E il ricordo va ai primi anni di studente, già significativamente dotato, che apprendeva i rudimenti dell'arte nelle aule degli  spazi dell'Accademia di Belle Arti di Urbino, capitale non minore del nostro Rinascimento. "Studiavamo nei torricini del Laurana, vedevamo i tetti della città Urbino, non potevamo non essere toccati da quella bellezza".

L'incontro con Piero Cicoli, di cui è pronta la personale alla Galleria Ghiggini, non può prescindere da questioni di geografia artistica. Di come un giovane cresciuto nella placida acquisizione dei fondamentali dell'arte, la tecnica del disegno, dell'incisione (nel 1961 consegue il diploma di Maestro d'Arte in Litografia), della ceramica – Urbania, sua città natale vantava nel passato un numero eccezionale di laboratori per cuocere le terre – per poi passare come molti giovani di quella generazione a respirare esperienze in parte sconvolgenti. Ma non può nemmeno prescindere dal suo ruolo di maestro per più di trent'anni di generazioni di allievi, tra la Sardegna, Varese, Como, i suoi luoghi di insegnamento.

Piero, esiste una forte distanza stilistica, cromatica, ed espressiva tra i tuoi primi lavori e quelli che ti hanno fatto più conoscere.
"Sono un figlio del classicismo, di quel classicismo che respiravamo a scuola. Di quella pratica che i nostri insegnanti ci trasmettevano. L'arte delle figure compite, dei disegni sui modelli in posa, del magistero della tecnica. La stessa architettura che si mantiene costante, nonostante tutto, anche nel mio lavoro successivo, dipende da quell'orizzonte di razionalità formale in cui siamo cresciuti".

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Poi però succede qualcosa.
"Un shock culturale, un trauma per molti di noi. Un nostro insegnante, volutamente, ci portò a visitare una mostra di espressionisti storici. A quel tempo la nostra possibilità di aggiornamento era scarsa. Quando ci trovammo davanti ad Otto Dix, Kirchner, Beckmann, lo stesso Kandinsky in molti ci fu una vera e propria crisi. Altri come me cominciarono a lavorare in quella direzione. Era come scoprire un nuovo mondo, un nuovo linguaggio, che non sminuiva quanto appreso sin lì. Fu una operazione giusta quella dei miei insegnanti. Ci davano la possibilità di avvicinarci e sentire altre cose. Non le spiegavano ma riuscivano a sensibilizzarci".

Un espressionismo che hai riversato quasi subito nella tua pittura, nel paesaggio prima ancora che nella figura.
"A pochi chilometri da Urbino viveva Burri. E Burri, anche se non l'ho mai conosciuto personalmente, era l'idea stessa di una energia impressionante della materia; il paesaggio che sentivo era pieno della lettura architettonica delle opere di Burri. Senza trascurare Licini, un altro gigante che con il segno, semplice segno delle sue Amalasunte, rendeva espressionistica ogni sua tela".

Personaggio seduto, 1975Personaggio seduto, 1975

E veniamo alla figura. Nel tuo studio ancora vecchi lavori, che sarebbe piaciuti a Testori.
"Un passaggio obbligato era guardare a Bacon. Chi meglio di lui, in una ricerca del mistero che si cela dietro una figura, un volto, l'assenza dietro gli occhi vuoti?".

Il famoso concetto di 'incomunicabilità'. Cos'è per te esattamente?
"E' un mio sentire, che viene proprio dalla lezione espressionista che ha spalancato la lettura soggettiva della realtà e quindi degli uomini. Le figure non generano automaticamente un colloquio con l'esterno, non sono oggettivate, ma rese soggettivamente e per questo quasi imperscrutabili. Lo spettatore è come se dovesse insistere per avvicinarsi. E' come cercare al buio, la parte più nascosta dell'essere umano".

Le tue figure, in questo senso, è come se mancassero di un centro proprio. Penso alla serie dei Viados.
"Esatto, anche il viado è una figura di cui è impossibile conoscere una identità precisa, esiste una difficoltà di percezione. Ma questo vale anche per la serie di figure femminili avvolte in volute di fumo, come se una nebbia impedisse una concreta definizione, ne decretasse l'impalpabilità".

Natura morta, 1979Natura morta, 1979

Perchè questo sul tema della fumatrice?
"E' una metafora della donna che cerca in tutti i modi di raggiungere una parità. Un modo di imporsi, con atteggiamenti quasi minacciosi, provocatori. Questo significa per me il gesto del fumo e molto spesso le mie donne finiscono per essere avvolte nelle loro stesse volute, quasi assorbite".

C'è una presenza costante nella tua opera: il melograno.
Sin dai tempi in cui ritraevi figure isolate, dentro gli  ospizi in pose quasi cristologiche, alla Antonello da Messina, sino a tuoi ultimi lavori, quelli con gli aquiloni ispirati ai libri di Khaled Hosseini.

"E' vero, è un leit-motiv. Dapprima quasi intero, poi via via sempre più aperto, sgocciolante. Con tutte le suggestioni che questo frutto comporta: la risurrezione di Cristo piuttosto che il sesso femminile".

E questi colori, fumantini, accesi, di nuovo quasi di un valore cromatico espressionista?
"Vengo da una terra per la quale la ceramica è tutto. Sono cresciuto con il senso del colore applicato alla ceramica, della lucentezza degli smalti. E i miei olii hanno sicuramente questo imprinting. Pur essendo colori tradizionali hanno l'accensione smaltata, quasi fossero più intensi del normale".

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Trent'anni di insegnamento. Hai detto del ruolo importante avuto dai tuoi maestri. E tu pure, risulta, hai lasciato un segno decisivo in molti dei tuoi allievi, molti dei quali oggi protagonisti della scena dell'arte.
Che ricordi hai del tuo mestiere di professore?

"Ricordi bellissimi. Di apertura, di continua sperimentazione, di apprendimento reciproco tra me e gli studenti, di grande libertà anche".

Il liceo artistico Frattini dove hai insegnato dai primi anni settanta fino a metà degli anni Novanta, non ha mai goduto di buona fama.
"Il Liceo Artistico è in assoluto una bella scuola. Dove si poteva creare più di un rapporto costruttivo. Ho ancora in mente quando, grazie all'intelligenza di un preside come fu il professor Losoni, potevo intraprendere con le mie classi, sperimentazioni sulla fotografia o sul cinema, oltreché sulla pittura. Un anno, con i poveri mezzi a nostra disposizione, partecipammo come classe al Concorso Internazionale di cinema non professionale di Montecatini, rappresentando addirittura l'Italia. Ed era una delle tante esperienze condivise, discusse, approfondite con gli studenti. Liberi di gestirsi gli spazi e il proprio tempo, ma in maniera entusiastica da parte loro. Un modo davvero artistico di creare esperienze scolastiche. Un modo forse di lavorare che adesso non è più possibile".

Hai vissuto anche i tempi più bui della contestazione.
"Si, un fenomeno che in verità ha toccato tutte le scuole. non solo l'Artistico. In alcuni momenti si dovevano tamponare situazioni imbarazzanti: ad esempio, studenti sdraiati sui banchi, del tutto indifferenti, alla presenza del professore. Ricordo un occasione in particolare: c'è stato un momento in cui gli studenti esposero all'esterno degli striscioni offensivi su di me. Pretendevo che il preside li togliesse, minacciando di non presentarmi agli scrutini. Alla fine andai di persona, davanti a tutti gli studenti, a strapparli. Per una questione di dignità mia personale".

Solidarietà tra docenti?
"Di fondo si, anche se il clima in certi momenti non è stato facile. C'era nell'aria una vaga minaccia alla propria integrità fisica anche se non è mai successo nulla di grave. Poi tutto è rientrato. Anche i ragazzi capivano che in quella scuola la libertà di movimento, la libertà creativa non era mai stata messa in discussione".