La mancata provincia e la lapide in Sant’Ambrogio
Busto Arsizio – Con i suoi 83.563 cittadini (dato al 31/12/2020) è la sesta città della Lombardia per numero di residenti, la prima tra quelle che non hanno il privilegio di essere capoluogo di provincia, pur contando più abitanti di Varese, Cremona, Pavia, Mantova, Lecco e Sondrio. Se ci riferiamo all’intero territorio nazionale, Busto è la sessantatreesima città più popolosa, la terza tra quelle non capoluogo, dopo Giugliano e Guidonia.
Eppure i bustocchi, quando il governo Mussolini decise il riordino delle circoscrizioni provinciali, avevano sperato che la loro città potesse essere proclamata capoluogo, accorpando in una nuova provincia alcuni comuni del Circondario di Gallarate, fino ad allora nella Provincia di Milano, con quelli del Circondario di Varese, nella Provincia di Como.
Fu grande la delusione, quando il 6 dicembre 1926 vennero a sapere che il Consiglio dei Ministri aveva elevato Varese a capoluogo provinciale. Molti pensarono che si trattasse di una sorta di vendetta del duce nei loro confronti, per avergli riservato una tiepida accoglienza il 25 ottobre 1924, allorché arrivò in città per inaugurare la nuova stazione ferroviaria. Ben altro entusiasmo, quel giorno, i bustocchi avevano infatti riservato all’arcivescovo di Milano, cardinale Eugenio Tosi, loro concittadino.
Un vero peccato per la città, la cui grandezza industriale avrebbe certamente meritato un formale riconoscimento. Quale parziale consolazione, il governo Mussolini nel 1928 “regalò” a Busto le frazioni di Sacconago e Borsano.
Eppure la città lombarda non fu sempre grande.
La stessa definizione locale di “Büsti Grandi” serve solo a distinguerla dall’altra Busto, la Busto Piccola (Bispiqual), ovvero Busto Garolfo.
Il ruolo di Busto Arsizio, sia in ambito amministrativo sia religioso, è andato crescendo nel corso dei secoli, di pari passo con lo sviluppo delle sue attività artigianali, commerciali e industriali.
Fin dall’Alto Medioevo Busto ricadeva nel Comitato del Seprio, ma dopo la battaglia di Legnano (1176) e la pace di Costanza (1183) crebbe l’influenza di Milano sul territorio, definitivamente attestata in seguito alla distruzione di Castelseprio (1287) da parte di Ottone Visconti.
Una prima testimonianza della crescita bustese fu l’elevazione da locus (luogo) a burgus (borgo), riferita per la prima volta in un documento notarile del 13 dicembre 1243, ma avvenuta presumibilmente già intorno al 1240.
Ai tempi del Ducato di Milano Busto fu investita di un importante privilegio, concesso dal duca Filippo Maria Visconti il 1° aprile 1440: il borgo, con tutta la pieve di Olgiate, fu sottratto alla giurisdizione del Seprio e della Bulgaria e dotato di un proprio podestà. Il privilegio fu poi riconfermato da Francesco Sforza il 22 marzo 1451, anche se i conflitti tra il podestà di Busto e il Capitano del Seprio di Gallarate, in merito all’esercizio dell’autorità sulla pieve di Olgiate Olona, erano destinati a durare a lungo, tanto che ci volle una terza conferma del privilegio, operata da Bianca Maria Visconti e Galeazzo Maria Sforza con lettera del 4 luglio 1467.
L’annosa vicenda del conflitto di competenza fu risolta da Gian Galeazzo Sforza il quale, con una lettera dell’11 maggio 1488 invitava il podestà di Busto e gli uomini del borgo a riconoscere come loro signore e padrone Galeazzo Visconti, al quale il duca aveva concesso il borgo e le pertinenze in feudo, con titolo e dignità di conte, nonché pieno potere di giurisdizione. Busto divenne così contea, staccata dalla diretta amministrazione milanese. Di fatto, però, terminavano anche l’era e l’autonomia comunale.
Nel periodo della Repubblica Cisalpina Busto Arsizio fu capoluogo del X distretto del dipartimento dell’Olona (5 vendemmiale anno VII, corrispondente al 26 settembre 1798), salvo essere poi spostata nel IV distretto, con capoluogo Gallarate (23 fiorile anno IX, ovvero 1801).
Nella ripartizione amministrativa del Regno lombardo-veneto, fu nominata capoluogo del distretto XV (12 febbraio 1816), e successivamente capoluogo del distretto X (23 giugno 1853).
Con l’avvento del Regno d’Italia, divenne capoluogo di mandamento, nel circondario di Gallarate, provincia di Milano. Ma soprattutto fu onorata del titolo di città, con Regio Decreto del 30 ottobre 1864.
Anche le chiese e il clero di Busto per diversi secoli furono dipendenti dalla chiesa plebana di Olgiate Olona, dove si trovava il fonte battesimale. Nel XIV secolo cominciarono i primi segnali di emancipazione, con l’erezione di un fonte battesimale nella chiesa di S. Giovanni. Busto diventò ufficialmente capoluogo della pieve ecclesiastica con decreto dell’arcivescovo Carlo Borromeo in data 4 aprile 1583.
Soppresse le pievi, la diocesi di Milano è oggi suddivisa in zone pastorali e decanati. Quello di Busto Arsizio, nella zona pastorale IV di Rho, comprende unicamente le tredici parrocchie cittadine.
La grandezza di Busto, evidentemente, non è cosa remota, e un dato particolarmente interessante ce lo dimostra: il più antico documento in cui compare il nome della località è più recente rispetto a quelli di altri abitati della zona.
Infatti, fra tutti i documenti ad oggi conosciuti, il nome di Busto Arsizio viene citato per la prima volta in un atto dell’anno 1053, ben più tardi rispetto a Vico Seprio/Castelseprio (715), Peveranza (721), Cairate (737), Legnano (789), Saronno (796), Cislago (807), Lomazzo e Rovate (852) Marnate (892), Carnago e Castiglione Olona (898), Varese e Busto Garolfo (922), Parabiago (963), Sesto Calende (966), Samarate e Lonate Pozzolo (973), Gallarate (974), Solbiate Olona e Solbiate Arno (1017), Castellanza e Fagnano Olona (1045), Gorla Maggiore e Gorla Minore (1046).
Il documento del 1053, in cui compare per la prima volta il nome di “BVSTI”, è un atto di donazione disposto da tale AVGVSTVS LANTERIVS e da sua moglie VVIDA (Guida) a favore dei canonici della basilica di S. Ambrogio a Milano. Tra i beni oggetto della donazione, disseminati in varie località, vi erano i praedia (terre) posseduti in BVSTI, verosimilmente Busto Arsizio, essendo ritenuto non credibile che il termine possa essere riferito alle località di Bustes Carulfi (Busto Garolfo), Busticava (Buscate) o a Bosto.
Il testo dell’atto di donazione non è in formato cartaceo, ma è scolpito sui due lati di una grande lapide marmorea, in origine lapide sepolcrale del benefattore, da diversi secoli conservata in S. Ambrogio.
Su una faccia della pietra è riportato l’elenco dei beni donati ai canonici, sull’altra quello dei beni donati ai monaci benedettini. Entrambi erano officianti in S. Ambrogio, ma spesso in contrasto tra loro tant’è che, come pare, a causa di questa rivalità la Basilica dispone di ben due campanili, quello dei monaci e quello dei canonici.
Della lapide in S. Ambrogio si sono occupati in passato illustri storici, quali Giovan Pietro Puricelli (Ambrosianæ Mediolani Basilicæ ac Monasterii hodie Cistertiensis Monumenta, volumen primum, 1645), Serviliano Latuada (Descrizione di Milano ornata con molti disegni in rame delle Fabbriche più cospicue che si trovano in questa metropoli, tomo quarto, 1751), Giulio Ferrario (Monumenti sacri e profani dell’Imperiale e Reale Basilica di Sant’Ambrogio in Milano, 1824), Giorgio Giulini (Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della Città e campagna di Milano né secoli bassi, vol. II, 1854) e Vincenzo Forcella (Iscrizioni delle chiese e degli altri edifici di Milano dal secolo VIII ai giorni nostri, vol. III, 1890). Questi storici hanno potuto vedere la lapide quando ancora si trovava nella parete destra della cappella del Sacramento, con la parte riguardante Busto rivolta verso la parete e dunque non leggibile.
Oggi la lapide si trova in altro punto della basilica, incastonata in un’apertura della parete perimetrale in modo da poterne leggere entrambe le facciate. Quella su cui è scolpito il nome di “BVSTI” è rivolta all’esterno, ed è protetta da una robusta grata di ferro.
La frase in cui è citata Busto è la seguente:
“Idem vero Lanterius cum Vvida sua uxore contulit ad canonicam huius ipsus ecclesiae sancti Ambrosii tota praedia quae hubuerunt in Comazo, Iuvate, Vigunzuni, Clariani, Muirago, Qnto, Busti, Ugobaido, Lourago…”
La donazione era stata disposta con la clausola che non fosse consentito ad alcun arcivescovo o abate infeudare, vendere o cambiare tali proprietà:
“ita ut nulli unquam archiepiscopo aut abbati liceat ex eis omnibus alicui aliquid inferare vel per libellum aut cambium seu quovis modo alineare”.
L’altra condizione posta dai coniugi ai monaci era quella che “unde ipsi ppetuo sup hoc sepulchru cicendelu accendant“(che sul loro sepolcro tenessero accesa perpetuamente una lampada), e col resto si comprassero le camicie ai religiosi, affinché cantassero l’ufficio per l’anima dei testatori.
Ma chi erano questi Lanterio e Guida? Erano di Busto?
Lanterio “clarvs homo” (uomo importante) probabilmente era un valvassore senza prole. Quanto alla moglie, il Giulini nel 1854 scriveva “Roperga, detta anche Guida, moglie di Nanterio della città di Milano”.
I due coniugi, come da loro volontà, furono ricordati in S. Ambrogio per diversi secoli. I monaci cisterciensi, subentrati ai benedettini nella basilica, celebravano ogni giorno la prima messa per Lanterio e Guida. Sotto un portico presso la cappella di S. Satiro furono anche realizzati dei loro ritratti a tempera, oggi perduti.
Tuttavia, secondo il Puricelli, Lanterio non era di Milano ma apparteneva ai nobili di Cologno, perché tra i lasciti vi era anche un praedium a Colonia; probabilmente si sbagliava, perché non aveva considerato, come invece fece il Giulini, che l’anniversario funebre dei nobili di Cologno si celebrava in S. Ambrogio il 24 ottobre, anziché il 2 gennaio, data della morte di Lanterio.
Di sicuro il milanese Lanterio non poteva immaginare, mentre disponeva dei propri beni, che così facendo sarebbe entrato di diritto nella storia di Busto Arsizio.
Roberto Albé