Pinacoteca Queriniana
di Sergio Pesce
Il Carnevale veneziano si differenzia da ogni altro per la storia e gli abiti che riprendono evidentemente i costumi dei secoli passati. Questa forza fantasiosa che possiamo osservare ancora oggi tra calli e campi ha in verità ben pochi rapporti con lo spirito Carnevalesco settecentesco. A Venezia esso durava dal 26 dicembre al mercoledì delle ceneri. L’aspetto ludico del camuffamento era una componente importante della Repubblica del XVIII secolo. Alcune maschere, fra cui la Baùta, non erano necessariamente inquadrate come componenti della festa, anzi venivano portate quasi sempre dal cittadino per tutto l’anno.
Questo aspetto fece nascere il sospetto che nella città lagunare si festeggiasse il Carnevale tutto l’anno. Alcune testimonianze in merito ci provengono dalle raccolte epistolari di alcuni visitatori stranieri. La Baùta consisteva in un velo nero che lasciava scoperto solo il viso, coprendo i capelli e le orecchie. Le si accompagnava la Larva, di colore bianco che copriva gran parte del volto lasciando la possibilità al soggetto di poter mangiare e bere, in quanto la parte prossima alla bocca, pur nascondendola, non era aderente al viso come nella parte superiore. Infine sul capo si accomodava un cappello a tre punte. Il camuffamento era completato da un Tabarro, ossia un lungo mantello di colore nero.
Un esempio piuttosto esplicito ci viene offerto dal dipinto di Pietro Longhi intitolato Il Ridotto, del 1757. L’aspetto democratico della festa permetteva a chiunque di portare questa veste; uomini, donne, poveri o ricchi. Si pensi che in occasioni straordinarie, questi indumenti erano addirittura d’obbligo. Si veda a tal proposito il dipinto di Gabriele Bella dal titolo Il ricevimento degli ambasciatori. L’ordinanza della maschera era però proibita in chiesa e nel periodo che andava dal 16 al 25 dicembre. Durante
mattaccini, Museo Correr
questo lasso di tempo ogni forma di camuffamento era severamente sanzionato. Ciononostante il camuffamento veniva sovente utilizzato di sera, dando al soggetto la possibilità di muoversi in incognito. Non a caso nel dipinto precedentemente citato, Longhi ritrae l’uomo mascherato all’interno di una casa da gioco (il ridotto appunto). Con questa finzione il giocatore poteva rimanere anonimo.
Un’altra maschera importante era la Moretta, normalmente di forma ovale. Essa non copriva interamente il volto per permettere alla stessa di mostrare le fattezze del viso femminile. Chi indossava questa protezione doveva rimanere in silenzio utilizzando i gesti quale unica forma di comunicazione. Spesso alla Moretta veniva associata la Zenale che altro non era che una mantellina colorata che poteva coprire anche la testa.
Da alcuni documenti veniamo a sapere che le prime forme di travestimento nella Repubblica nacquero verso il 1268 e non si trattava certo di una festa tranquilla. Proprio in questo contesto trovano origine le figure dei mattaccini. Costoro portavano all’interno del loro grembiule uova riempite di profumi che tiravano contro le ragazze. Alle maschere tradizionali che abbiamo visto essere state usate normalmente per tutto l’anno se ne aggiunsero altre di ispirazione popolare. La loro natura era quella di mettere in ridicolo alcune figure professionali e più in generale gli stranieri. Molti di questi travestimenti furono inevitabilmente attinti dalla Commedia dell’Arte, la quale trovò in Goldoni un grande esponente e il più grande riformatore.
Tra i più famosi, abbiamo l’inglese rigido come il Capitano, che non smetteva di celebrare le sue imprese salvo poi sparire al primo accenno di pericolo, il ricco Pantalone e il medico della peste. Di quest’ultimo si intese delegittimare la figura, esorcizzandola al tempo stesso. Ma senza dubbio la più famosa maschera Carnevalesca rimane quella di Arlecchino. Costui era il servo furbo di Pantalone. Il suo abito intende richiamare quello dello Zanni (dal veneziano Giovanni) associato
Teatrale del Burcardo
all’uomo di servizio.
La veste, originariamente bianca voleva far riferimento al costume usato dai contadini delle valli bergamasche, quindi al luogo d’origine di questi dipendenti. Successivamente si pensò a rendere policromatica questa sua “divisa”.
Rimase invece bianca quella di Pulcinella che secondo la tradizione della commedia moderna è un parente napoletano degli Zanni.
Originariamente il luogo d’incontro per il Carnevale era Campo Santo Stefano, scelta dipesa evidentemente dal fatto che la festa iniziava proprio nel giorno a lui dedicato. A partire dalla metà del XVII secolo si decise di spostare l’evento nell’unica Piazza della città e sede del potere, quella di San Marco.
Durante quei giorni il Doge aboliva la legge che vietava di esibire il lusso in pubblico. Il culmine dei festeggiamenti avveniva, e avviene ancor oggi, tra giovedì grasso e il successivo martedì grasso, giorno che sancisce la fine della festa. Il giovedì veniva usato dal Doge per proclamare una commemorazione in Piazzetta.
La corporazione dei fabbri uccideva dei tori dividendo poi la carne tra ricchi e poveri in parti uguali. Si tendevano poi delle alte funi tra gli edifici della Piazzetta dove un lavoratore dell’Arsenale sfidava la forza di gravità portando dei fiori al Doge che si trovava nel balcone dogale. Non erano rare anche le cosiddette Forze d’Ercole. Vere architetture umane che spesso completavano la figura con un vertice, facendole assomigliare a delle piramidi.
Ancora una volta l’occhio attento e preciso di Gabriele Bella ci fornisce una “fotografia” ante litteram dell’evento, con il dipinto Giovedì grasso sulla Piazzetta.
La componente democratica del Carnevale fu chiaramente strumentalizzata in primis dal Senato della Repubblica che usò la festa per dar sfogo al malcontento sociale. Famoso è il motto fatto circolare sin dalle origini dell’evento:”Chi ha una maschera con sé, nessuno ha sopra di sé”.