Chissà cosa direbbe oggi Luigi Broggini, dopo che uno degli antri magici dell'arte milanese del secolo scorso ha vissuto l'onta di uno sgombero forzato da parte delle forze dell'ordine. La leggendaria Casa dell'artista, al numero civico 89 di Corso Garibaldi; una costruzione innovativa già in origine, progettata proprio per le esigenze di pittori e scultori: finestre a nord, luce indiretta, la vista sul verde.
Vi presero studio, per dire solo del dopoguerra, Ornati, Cazzaniga, Banchieri, Ferroni, Romagnoni, Cassani, musicisti come Chet Baker, scrittori come Buzzati la frequentavano di norma, fino alle ultime generazioni che vi fecero capolino: Spagnulo, Brusati, il giapponese Ydetoshi Nagasawa, Jole De Sanna, Luciano Fabro, Dada Maino. Nel 1988 vi si stabilisce, tra altri artigiani, un gruppo di di liutai e cembalari. Quell'aria, quell'atmosfera, Luigi Broggini l'ha vissuta e respirata più a fondo e più a lungo di altri. L'ultimo, degli artisti storici della sua generazione, ad andarsene, provato più dai furti e dall'involgarimento poetico dell'ambiente che non dal degrado strutturale dell'edificio. Stefano Broggini, il figlio dell'artista ricorda vivamente quegli anni e quel clima
"Mio padre amava quello studio. Anche negli ultimi anni ricevette molte offerte, io stesso andai con lui a visitare altri studi a Milano, anche più centrali di quello. Ma non ci furono ragioni. Non volle mai abbandonarlo. Perché amava soprattutto la luce di quel posto, le immense vetrate, quegli spazi luminosi ma senza il disturbo del sole. Ma gli piaceva anche il fatto che al di sotto ci fosse da sempre un giardino botanico. Questo per lui era importante".
Quanto tempo dedicava al lavoro suo padre?
"Ne era molto coinvolto, naturalmente. Spesso vi trascorreva anche i sabati e le domeniche.Per impegni di lavoro capitava che non cenasse o pranzasse con noi, ma è sempre stato una figura presente, un padre attento anche se non necessariamente 'coinvolgente' per quanto riguarda il suo operare".
Nel senso che non ne parlava in famiglia?
"Il suo lavoro d'artista lo assorbiva, in qualsiasi momento, quando leggeva, quando passeggiava, ma non era il tipo di persona cui per indole piacesse interloquire di questioni estetiche con la famiglia. Anzi era piuttosto schivo su tutto ciò che lo riguardava. E anche da parte nostra rispettavamo questo suo silenzio, nessuna intromissione pur avendo una famigliarità quotidiana con le sue opere che ho visto nascere, crescere, in molti casi trasformarsi e in molti altri distrutte da lui".
Non ha mai voluto che lei seguisse le sue orme e intraprendesse una carriera artistica?
"Assolutamente no. Anche da parte sua, nessuna intromissione nelle mie scelte. Anche per questo credo che mio padre sia stato una persona di grande intelligenza, sensibilità, acutezza".
Broggini, lo dimostra la sua bibliografia, ha avuto molti rapporti con i critici. Aveva amici?
"Grandissimi amici: Del Bon, ad esempio, o Chighine, uomo ed artista di un contagioso umorismo; amici poeti come Vittorio Sereni e Renzo Modesti o Gina Lagorio, amici che oltretutto apprezzavano anche il suo lato poetico e letterario".
Eppure l'immagine che normalmente si rileva di suo padre è quella di un uomo piuttosto solitario.
"In parte lo era. Il fatto che amasse la pesca, è un aspetto che conferma questo tratto. Ma era soprattutto uomo non disponibile ai compromessi, neppure con se stesso. E' sicuro che avesse rapporti controversi con la critica, in virtù di un rigore morale unico. Non lisciava il pelo e non aveva nessun tipo di compiacimento per mere questioni commerciali".
Come si rapportava con i galleristi?
"Più che con i galleristi, non sopportava spesso le forzature delle mostre. Per lui spesso allestire una personale, se richiesto da altri, era un trauma. Quando invece era lui a pensarla, a volerla, secondo i suoi tempi, i tempi di ispirazione e di lavoro, allora erano progetti direi tollerati. Ma anche sul mero piano commerciale, spesso arrivava al punto di non voler vendere i suoi pezzi se solo avvertiva che l'acquirente non era in sintonia con lui. D'altra parte poi era molto generoso ed arrivava a regalare i suoi lavori se capiva che una persona, sinceramente interessata, non poteva permettersi la spesa".
Le biografie raccontano che molto del lavoro di Broggini è andato distrutto. A causa della guerra e poi negli ultimi anni per una sua quasi feroce determinazione a 'depurare' la sua opera.
"La distruzione del suo studio a causa dei bombardamenti alleati fu una cosa scioccante soprattutto per lui che non aveva una produzione fitta. Sculture, fogli, ceramiche, quasi tutto andò distrutto, anche i suoi amati libri di cui era onnivoro. Diverso è il caso degli ultimi anni. Quando fece una inevitabile revisione del proprio lavoro e si lasciava andare a gesti distruttivi di cui peraltro spesso si pentiva il giorno dopo. Una questione di umoralità, di un uomo che in quegli anni non stava bene di salute. Ricordo, tra l'altro, che questi impulsi spesso lo coglievano anche a casa di suoi collezionisti che si vedevano mozzare o decapitare le proprie opere. Perché in quel momento mio padre non le trovava più all'altezza. Per poi risarcire gli stupefatti acquirenti con altri lavori".
Perdite che hanno toccato soprattutto il suo lavoro grafico.
"Di recente ho fatto delle ricerche confrontando le lastre originali con le stampe conosciute. Ho trovato qualcosa come cento lastre ma 300 soggetti diversi. Significa che molte lastre sono andate perdute o distrutte. Anche le sue tirature non sono mai state elevate. Eppure, in particolare dagli anni settanta, mio padre ha una fortissima predilezione per l'acquaforte, non passava giorno che non vi si dedicasse".
Forse un aspetto meno considerato del lavoro di Broggini è la sua ceramica.
"Che invece a mio parere e non solo mio, è formidabile. Fece dei lavori bellissimi, secondo alcuni ad un livello anche superiore allo stesso Fontana. Tutto nasceva ad Albissola, dove ogni anno si recava presso la ditta Pozzo Garitta, una delle innumerevoli fabbriche dedicate alla ceramica, per lavorare secondo i rituali della cottura. Anche Fontana e tanti altri artisti, anche Emanuele Luzzati, approfittavano della perizia dei laboratori di Albisola. Sarebbe interessante mettere in evidenza questo aspetto. Anche in questo campo ho fatto delle ricerche per una mostra che avrebbe dovuto tenersi al museo di Faenza. Ho rintracciato almeno 130 pezzi in collezioni private. E tutti preziosi, molti istoriati con le sue classiche figure".
Passatempi? Luoghi di ritrovo con artisti? Frequentava il bar Giamaica?
"Non mi risulta. So che in gioventù amava frequentare i circoli artistici riuniti al Caffè Craja, al Tre Marie, al Donnini; ma sono incontri che trascolorano nel dopoguerra. Non amava giocare a carte, non guardava la la tv, ma era appassionato di cinema e teatro quello sì. Ricordo magnifiche serate con lui ad assistere al cabaret dei Gufi, a quel tempo fortemente anticlericali, di Poli, al teatro Gerolamo dove imperava Piero Mazzarella, e naturalmente Dario Fo".
Anticlericale anche suo padre?
"Diciamo laico".
Dante Isella scrisse per lui in occasione di una sua personale alla Galleria Bambaia di Busto Arsizio una intensa presentazione. Che rapporti esistevano tra loro?
"Una vera e profonda stima reciproca".
E con Giovanni Testori?
"Non si sono mai frequentati tanto. Ma lo scritto di Testori in occasione della sua morte era commovente. Sembrava emergere una sorta di disperazione per non essersene mai occupato abbastanza".