Ancora un libro su Raffaello? Sì, un altro ancora dove però non si tratta delle Madonne “meravigliosamente semplici e vive” al dire di Renoir o degli affreschi nelle Stanze in Vaticano o alla Farnesina di Agostino Chigi, bensì di una lettera indirizzata a un “Padre Santissimo” mai nominato ma, senza ombra di dubbio, da identificare col pontefice Leone X. Una lettera travagliata nella stesura giacchè Raffaello la scrisse una prima volta, poi per renderla più persuasiva, la mandò da leggere a Baldassarre Castiglione, suo amico – il bellissimo ritratto che gli fece lo prova –il quale modificò, aggiunse, anche cancellò prima di rispedirla a Raffaello che vi mise mano ancora poco prima della improvvisa scomparsa avvenuta il 6 aprile 1520, ragione questa per cui la lettera non venne inviata e dunque mai letta dal papa. (nella foto:Raffaello, Autoritratto)
Lo scritto, fortunatamente rimastoci nelle stesure sia di Raffaello, sia del Castiglione, aveva lo scopo di prospettare, e anche risolvere, i problemi relativi alle “antiquitate” di Roma accertati dal pittore soprattutto dopo il 1515 quando, nominato dal pontefice “praefectus marmorum et lapidum omnium”, di esse diventò “assai studioso…havendo posto non piccola cura de cercharle minutamente e misurarle con diligentia”. Dopo questa premessa Raffaello nella lettera rileva, dolendosi, che “quelle famose opere che hoggidì più che mai sarebbero florenti e belle forno dalla scelerata rabbia e crudele impeto di malvaggi homeni, anci fiere, arse e distrutte”, non esitando ad annettere fra i “malvaggi” anche predecessori di Leone i quali “hanno atteso a ruinare templi antiqui, statue e archi et altri aedifici gloriosi…solamente per pigliar terra pozzolana”. (nella foto:Raffaello, Ritratto di Leone X con due cardinali).
Di fronte a tanta rovina Raffaello continua auspicando che “non debba…esser tra li ultimi pensieri di Vostra Santitate lo haver cura che quello poco che resta di questa anticha madre de la gloria e grandezza italiana…non sia estirpato e guasto dalli maligni et ignoranti”.
Lui, Raffaello, da parte sua è pronto a mettere “in dissegno Roma antica quanto conoscier si può per quello che oggidì si vede”, trascurando “li edifici del tempo delli Gotti…talmente privi d’ogni gratia, senza maniera alcuna, dissimili dalli antichi e dalli moderrni”. (nella foto:Raffaello, Ritratto di Baldassarre Castiglioni)
Forte per aver studiato e misurato questi monumenti “con molta diligentia e faticha, perscruttando per molti lochi pieni di sterpi inculti”, Raffaello chiarifica poi al pontefice il suo progetto che è quello di “ridurre nel termine proprio come stavano” tramite il rilievo e il disegno codeste rovine. Per farlo e come egli illustra al pontefice fin il complesso metodo pratico da adottare, usando “un istrumento tondo et piano come un astrolabio” col quale “adunque misureremo ogni sorta di edificio…un modo di disegnare che più si apartiene allo architecto…differente da quello del pictore”. Un progetto certamente impegnativo in tutti i sensi che Raffaello, profondamente motivato e appassionato, si sentiva pronto ad affrontare se non fosse morto “per grandissima febbre” lasciandolo incompiuto.
La lettera, anzi le sue versioni, si possono leggere ora nel libro dal titolo “Raffaello tra gli sterpi. Le rovine di Roma e le origini della tutela” pubblicato da Skira nella sua “Biblioteca d’arte”. A recuperare con strenua filologia e opportuni confronti i testi si è data cura, puntigliosa e amorosa, la paleografa della Normale di Pisa Giulia Ammannati mentre il commento ad essi, allargato anche sui fermenti e gli interessi culturali a Roma ai tempi di Leone X, spetta a Salvatore Settis che a conclusione del suo saggio come sempre esemplare chiosa – e come dargli torto? – che “da quella sua [di Raffaello] lezione abbiamo ancora molto da imparare”.
Giuseppe Pacciarotti