Nei giorni scorsi era a Parigi, a presentare la sua 'famiglia', nata dall'idea geniale che in qualche modo gli ha cambiato la vita, la celebre sedia Alias. Ieri, contattato al telefono, era in viaggio da Vicenza a Mendrisio, i due poli della sua parallela attività di insegnante, in Italia e all'estero. Riccardo Blumer è uno delle professionalità che, con discrezione, porta il made in Italy, nel campo del design e in quello architettonico nel mondo. Sarà uno dei cinque designers presenti all'appuntamento fissato per sabato alle Ville Ponti, La forma del desiderio. Con lui abbiamo parlato del ruolo dei designer in questo evento, della coscienza etica del creatore di forme nella società.
Blumer, qual è il senso di questa mostra e la presenza sua e di Morandini, di Pozzi, di Raffaella Mangiarotti e di Francesco Lucchese?
"Siamo stati coinvolti nell'organizzazione. Si voleva una presenza significativa di designers, varesini e non. Abbiamo accettato volentieri. Ma dal momento che non siamo proprio di primo pelo, ci è sembrato più originale che la nostra presenza non fosse un metterci in vetrina, quanto un metterci a disposizione per sollecitare l'attenzione verso alcuni giovani che si stanno mettendo in luce".
Il concorso.
"Esatto. Abbiamo pensato ad una selezione. Ciascuno di noi dovrà a breve individuare cinque giovani di sperimentate doti e capacità. Saranno loro a creare il design di un gioiello che l'anno prossimo sarà votato da una giuria popolare. Sto spingendo, in questo senso, perché oltre alla votazione della giuria si possa incrociare anche la nostra di votazione. Non sempre la giuria popolare è sinonimo di qualità. Mi piacerebbe che ci fosse anche il nostro giudizio di merito, come è giusto che sia anche in democrazia. Quindi sabato alle Ville Ponti noi cinque presenteremo questo progetto, parleremo di questa avventura creativa con i giovani".
Saranno esposti anche vostri lavori?
"Più che altro il segno di una presenza. Ciascuno di noi cinque avrà ha disposizione un piccolo box espositivo, con una piccola biografia, l'immagine di un lavoro realizzato, nel mio caso la sedia La leggera realizzata per Alias e un oggetto concreto che fa parte del percorso creativo di ognuno di noi. Per rappresentarmi ha scelto la mia sedia Origami".
La sua La leggera è la creazione che l'ha fatto conoscere diffusamente.
"E' una creazione di dieci anni fa. E proprio nei giorni scorsi ero a Parigi a presentare la 'famiglia', come si dice in gergo da design, il corredo: una dormeuse e una poltrona con braccioli, creature figlie di quell'idea originaria. Sono felice di tutto questo. Ci sono voluti dieci anni, ma sono contento lo stesso. Per fare le cose per bene occorre del tempo, e quest'epoca spesso non te lo concede. La soddisfazione è che a dieci anni dalla mia sedia, io sia sopravvissuto, abbia fatto tante altre cose e alla fine sia riuscito anche a dar frutti alla mia prima idea".
La sua biografia racconta delle sue esperienze come docente: Mendrisio, Venezia, Vicenza, Milano, San Marino. E' difficile, in effetti, trovare il tempo.
"In realtà gli insegnamenti sono una novità abbastanza recente. E mi danno energia, molta di più di quanto ne dia io. E' la dimensione del laboratorio, della sperimentazione. Molto più che in studio, dove prevale la legge dell'economia".
Tornando al concorso, i giovani che indicherà fanno parte dei suoi studenti?
" Non credo; insegno ai primi anni e da troppo poco per vedere i miei alunni già come professionisti formati. Ho altri nomi, qualcuno anche di Varese, conosciuto in alcuni master, o altri con i quali ho già collaborato professionalmente, tutti molto bravi".
C'è un modo per capire quando un designer è pronto, formato, consapevole?
"Domanda difficile, ma necessaria. Credo che in una professione come la nostra, al confine tra disciplina tecnica e artistica, la consapevolezza e quindi la maturità arrivi quando il designer capisce che il suo dovere è parlare del nostro tempo, della contemporaneità. Creare modelli nuovi, ma conoscendo benissimo quelli vecchi, quando si è in grado di operare in quella zona libera dove poter concludere il proprio lavoro, senza la costrizione appunto della ragione economica. Essere contemporanei attraverso il proprio lavoro, questo è".
Lei è anche architetto, famoso architetto. Che giudizio, in merito, si sente di dare su Varese?
"In generale la mia sensazione è che ci sia tanto da fare, ancora. Il pubblico dovrebbe saper trasformare gli interessi economici in occasioni di sviluppo della città, in senso lato. A Milano mi sembra lo stiano capendo. A Varese mi pare che prevalgano gli interessi privati di qualcuno non lo sviluppo culturale della comunità".
Piazza Repubblica?
"Piazza Repubblica io propongo di venderla. E' totalmente inutilizzata, sprecata. Ho degli schizzi in cui colloco provocatoriamente all'interno della piazza il Colosseo. E ci sta. Questo dimostra le sue enormi potenzialità che vengono totalmente lasciate morire. Per non parlare della fatiscenza della Caserma Garibaldi o di altri segnali altrettanto negativi. Penso al piazzale Mafalda di Savoia a Masnago, con il monumento ai Caduti. Come è possibile celebrare ufficialmente un rito in memoria di qualcuno su una rotonda? Bisogna che si ritrovi maggiore coscienza, una responsabilità nuova verso il territorio".
Lei vive a Casciago, di questi tempi in preda a polemiche alimentate anche da Dante Isella sui lavori in corso sulla provinciale? Che ne pensa?
"Penso che Isella abbia ragione. Per lo stesso motivo che lo ho detto prima. Bisogna essere coscienti dell'identità del luogo. Si investono miliardi, ma si dimentica, ad esempio, di recuperare una antica fontanella. Sarebbe stato un segno di attenzione. Invece assistiamo ad uno stravolgimento del sito di Sant'Eusebio, completamente snaturato. Questa volta non ho lasciato correre, ho scritto, ho preso posizione. Come mi sembrava giusto fare".