Mendrisio – Finalmente, dopo mesi a star lì incollati allo schermo del computer a vedere (vedere?) mostre che invece  sarebbero da gustare “in presenza” per soffermarsi su questa o quell’opera e catturarne bellezze e segreti, si torna a respirare l’aria buona dei musei e delle gallerie d’arte, a percorrere i loro bianchi corridoi e a muoversi a proprio agio nelle sale vaste e luminose. Gli occhi, la mente, il cuore si schiariscono e si rasserenano. Davvero finalmente!

S.Emery,Il mistero del quadro

Sollecito il Canton Ticino è stato tra i primi a riaprire. Infatti con l’usuale puntualità il Museo d’arte di Mendrisio tiene aperta fino al 4 luglio, questa volta senza essere andato a cercare lontano, l’opportunità di conoscere due artisti della sua terra da sempre fucina prolifica, operosa e variamente creativa. Anche in questa occasione il più anziano artista sembra passare il testimone ad uno più giovane, in questo caso donna, e sempre in una ricerca che lascia il segno.

S.Emery, Cactus

Dunque ecco Sergio Emery, nato a Chiasso nel 1928 e scomparso a Gentilino nel 2003. Non era persona da far passare l’esistenza in paesi a quei dì proprio tranquilli e così da giovane se ne andò dove l’arte pulsava, energica: Zurigo, Milano, Parigi, Venezia per le Biennali. Sperimentò poi la sua creatività in svariati campi (fu anche scenografo per la televisione) finchè decise di dedicarsi solo alla pittura, lasciandola poi e infine riprenderla. Per sempre. E con una forza, una febbre verrebbe da dire, incessante, che s’impone subito, sia nelle tele, sia negli incisivi fogli grafici per via di una gestualità rapida e irruente, assolutamente mai di maniera o scontata, e per i colori impetuosi e perentori (certi neri magmatici…). Nei suoi lavori, riuniti spesso in cicli, brulicano profondi impulsi interiori e un’esperienza davvero vitale; davanti a questa energia fremente ma ben salda si è proprio indotti a fermarsi, a indugiare e a pensarci su, a lungo, alla ricerca di un qualcosa che si vorrebbe diventasse anche nostra.

M.Tallone,Chiostro,installazione

Il Museo ci accoglie subito, appena entrati nel chiostro, sorprendendoci con un’altra “storia”: [ēx], di Miki Tallone, a cura di Barbara Paltenghi Malacrida. L’artista ha creato in questo spazio, un tempo luogo di meditazione e di passi solitari dei padri serviti, un’istallazione in armonia di silenzi, di luci e di forme con esso. Sono due affilati elementi tubolari di color indaco: uno slanciato verso l’alto, oltre il candido quadrato disegnato del chiostro, l’altro semicurvo, quasi a voler tornare alla terra madre. Uno studiato chiusino di lucente ottone al centro del cortile contrappone il suo rigore formale al festoso decoro dell’orologio sulla parete di fronte. Davvero non occorre di più: nella loro essenzialità, e levità, questi minimi elementi diventano tracce per segnare un percorso e un tempo. E ci guidano a seguirle.
Nel vasto salone al primo piano, là dove doveva esserci il refettorio dei padri, Miky Tallone scarta la loro presenza, ma vuol suggerirne il passaggio quotidiano, silenzioso nella consuetudine metodica e ordinata dei gesti evocati dagli oggetti d’uso.

M.Tallone, installazione, dettaglio

Essi sono posati amorevolmente su un lungo tavolo quasi da Ultima Cena e fanno sentire la voce, la vita: i piatti di vetro trasparente, i tovaglioli sfrangiati diventano testimoni del battito dell’esistenza. Come anche le briciole dei pasti frugali fissate su lastre, messe in cornice e appese alle pareti. No, non bisogna solo guardarle e passar via; occorre scovare il loro arcano linguaggio solo apparentemente così semplice e invece arduo da raggiungere. Ma, quando sarà finalmente chiarito, non si potrà non portarlo via. Anche lui, come quello altrettanto stordente di Emery.

Giuseppe Pacciarotti