del Battista
Nel Museo, i vuoti – Tra nostalgia e acutezza di sguardo, Alberto Arbasino ha stilato la sua personale lista delle mancanze, dei vuoti e delle assenze, essendo stato in visita nel nuovo Museo del Novecento a Milano. "Non ci sono i grandi importanti disegni di Gianni Testori (a Milano!)". E poi: "Ugo Mulas, qui assente perché gli aeroplani degli sponsor sì, ma la fotografia benché insigne invece no".
Quel Testori approdato in sala Veratti nel 2003 quando, accanto ai pannelli della mostra biografica, vennero esposte cinque opere pittoriche (oltre alla Messa di San Gregorio, piena di "suffumigi pestiferi", un Sant'Antonio del Morazzone, una Testa del Battista di Francesco Cairo, in péndant con un disegno di Guttuso con il medesimo soggetto, e il Balcone di Velate dello stesso maestro di Bagheria) importanti per Varese e fortemente legate all'opera critica testoriana.
Quel Testori annodato e innamorato, primitivo ed esasperato come i disegni a penna stilografica
raffiguranti la testa di San Giovanni Battista, concepite durante la stesura del monologo teatrale 'Erodiade'; o come nei grandi dipinti di nudi femminili dei primi anni '70.
Quel Testori che ebbe a scrivere: "I rapporti con Varese sono di grande partecipazione. A parte, e non a parte, che ho una sorella che vive a Varese, con i nipoti, e quindi sono anche ragioni di vita. Ma ancora prima che questo si verificasse, è una cultura, quella del circondario varesino, talmente legata a Milano, è una propaggine tra la cultura milanese e quella ticinese. E poi mi piace moltissimo, devo dire, questa capacità di ordine dentro il rigurgito della vita moderna che Varese e il Varesotto sono riusciti a tenere nei confronti di altre zone, per esempio la Brianza, che si è lasciata travolgere dal meccanismo del consumismo. In Varese c'è questo senso civile, civico, umano anche, di rispetto. Questo me l'ha sempre fatta amare, Varese e le zone circonvicine. E poi è uno dei posti del mondo dove ci sono i più bei tramonti che abbia mai visto. Non c'è volta che attraversi la zona del Varesotto, verso il lago, che io non venga colpito, lacerato da quelle incredibili sere".
E nel suo Guttuso a Varese del 1984: "Chi scrive, s'è trovato nel mezzo: metà di Guttuso e metà di Varese. Povero cuore (e intelletto) frantumati! Un po' come quello del capitano di cui parla l'antica canzone alpina? Lasciamo stare I santi; e I fanti. Così come il cuore dei martiri veri e dei veri martirizzati. Del resto, se Varese e Guttuso sono inscindibilmente legati, per il passato, per il presente, per il futuro e per quel tanto d'eterno che a noi umani è dato immettere nella nostra povera storia, anche la divisione del mio, di cuore, è stata, in realtà, un abbraccio. Questo si scrive, ancorché sia stato fermo, e
quasi tetragono, nel volere che la mostra risultasse quella che è; quella, cioè, che la sua titolazione prometteva e, dunque, esigeva, che fosse".
"Ho buone ragioni per ritenere che il risultato darà ragione alla mia fermezza, per altro, subito accolta dagli esimi amici, mallevadori dell'evento. Chè se pochissimo utile sarebbe stato ripetere, in più brevi misure, le monografiche che, a Guttuso, negli ultimi anni i pubblici musei han giustamente dedicato; sommamente utile sarebbe stato risultato il fatto che, puntando sul legame, sull'affezione, sull'effusione, sulla perfusione, spesso così innamorata, filiale e insieme paterna, da farsi immersione, nell'humus e nell'animus del paesaggio e della vita varesine, ci presentasse un Guttuso colto nelle sue più intime, segrete, recondite e straziate meditazioni. Stavo per scrivere: un Guttuso colto nel momento in cui recita I suoi laici, martirizzanti e glorificanti rosari… Guttuso mi perdoni".