Piccolo Prologo

Ognuno ha un modo di abbracciare il mondo” continua a ricordarmi la mia vocina interiore1: il nostro modo è quello di percorrerlo tutto, fino all’ultima pagina.

Per questo abbiamo nuotato tra carte geografiche, guide, riviste, saggi e romanzi, abbiamo cavalcato la memoria di coloro che si sono inzuppati dei suoi colori, abbiamo volato con pensieri di chi l’ha sudata e amata. Siamo riusciti persino a terminare un film di 8 ore sull’epica intricata di questa terra e ci siamo scritti su di un foglio, che tengo sempre in tasca, lo schema del complesso pantheon di divinità che popola il SUB-continente più indecifrabile della Terra.

Eppure c’è ancora molto da imparare e soprattutto da interiorizzare. Ma che importa:
domani ci andiamo davvero. Torniamo in India.

Gli elefanti di Mamallapuram

Un bassorilievo sproporzionato occupa l’intera base della collina sacra che ci troviamo davanti, appena scesi dal tuc-tuc che ci ha portato fin qui.

La Penitenza di Arjuna o Discesa del Gange è una gigantesca opera scolpita in un unico blocco di granito: quasi trenta metri di lunghezza per dieci di altezza. Risale certamente alla dinastia Pallava, quindi al VII – VIII secolo. La scena può essere interpretata come la descrizione del famoso episodio della penitenza dell’eroe Arjuna oppure come la raffigurazione della discesa della acque sacre del Gange sulla terra.

Nel Grande Poema Epico Mahābhārata si narra che Indra, il Re degli dei, consigliò a suo figlio, l’eroe Arjuna, della dinastia dei Pandava, di ingraziarsi il dio Shiva, affinché quest’ultimo gli concedesse in prestito il proprio infallibile arco Gandhiva. Arjuna aveva infatti bisogno delle armi più potenti per sconfiggere i suoi malvagi cugini Kaurava, che minacciavano di usurpargli il regno.

Il prode Arjuna intraprese così una serie di penitenze, come ad esempio quella di meditare per giorni in piedi su una gamba sola, tramite le quali rivolse la propria devozione a Shiva. Questi, constatò la purezza dei suoi intenti ma volle avere un’ultima dimostrazione del suo valore.

Un giorno, Arjuna fu attaccato da un grande demone sotto forma di cinghiale. Egli afferrò il proprio arco e scagliò una freccia. Shiva, che nel frattempo aveva assunto la forma di un cacciatore, lanciò a sua volta un dardo che colpì il bersaglio nello stesso istante di quello di Arjuna. Il cinghiale cadde al suolo senza vita, ma Arjuna intuì che qualcun altro aveva interferito in quello scontro.

Accortosi della presenza del cacciatore, prese a discutere con lui su chi avesse colpito la preda per primo. La diatriba si animò rapidamente e i due iniziarono un feroce duello. Combatterono a lungo ma Arjuna, per quanto si impegnasse con tutte le sue forze, non riusciva a sopraffare l’avversario. Stremato e ferito, da terra invocò l’aiuto di Shiva. Quando riaprì gli occhi vide il corpo del cacciatore adornato da fiori e capì che questi non era altri che Shiva stesso. Arjuna si prostrò ai suoi piedi, scusandosi per non averlo riconosciuto. Shiva gli sorrise rivelando il suo vero intento: assicurarsi che il guerriero fosse così valoroso da meritare di utilizzare la sua arma più efficace. Il dio gli promise che, prima dell’inizio della guerra, gli avrebbe consegnato l’arco ed insegnato a usarlo, quindi scomparve.

Nell’opera scultorea un elefante, ritratto quasi a grandezza naturale, irrompe sulla scena zeppa di figure epiche, personaggi in processione, divinità, creature che partecipano al racconto del mito. Poco distante dalla testa dell’elefante è possibile notare una simpatica raffigurazione che testimonia l’inattesa ironia dell’autore. Un gatto, messo nella stessa posizione ascetica di Arjuna, prende in giro la penitenza del protagonista, circondato da alcuni topi che ballano.

Il bassorilievo può offrire però una seconda interpretazione: il mito della discesa del Gange.

Il re Sagara decise di eseguire Aśvamedha, un rituale che ha come protagonista un cavallo sacro, per provare la propria supremazia nel mondo.

I suoi servi, però, smarrirono il cavallo destinato al sacrificio. Sagara ordinò perciò ai suoi sessantamila figli di ritrovarlo. I Prìncipi si scatenarono perlustrando tutto il Regno, bruciando foreste, distruggendo ogni forma di vita per ottemperare alla richiesta del padre. Alla fine giunsero in una radura avvolta da un silenzio misterioso, dove trovarono un saggio di nome Kapila, seduto in meditazione. Dietro di lui scorsero il cavallo sacrificale che pascolava placido. I Prìncipi infuriati si prepararono ad attaccare Kapila, pensando che fosse stato lui a rubare il cavallo, ma quando Kapila aprì gli occhi il suo immenso potere ridusse il sessantamila principi in cenere.

Venuto a conoscenza dell’accaduto, re Sagara inviò suo nipote Amshuman a cercare nuovamente di recuperare il cavallo. Egli era di animo puro e Kapila si mostrò accondiscendente, restituì l’animale e sentenziò che i sessantamila figli di re Sagara sarebbero potuti salire al cielo solo se il Fiume Gange fosse sceso sulla terra e avesse purificato le loro ceneri con le proprie acque.

Negli anni seguenti né Sagara né i re che si succedettero a lui furono in grado di far scendere il fiume sulla terra e la colpa dei sessantamila principi cominciò a provocare disastri naturali e cataclismi.

Quando salì al trono il re Bhagiratha, decise finalmente di porre fine a questa malefica profezia. Per mille anni si sottopose ad ogni genere di penitenza per ingraziarsi Brahmā. Alla fine dei mille anni, il dio, compiaciuto, decise di soddisfare il desiderio di Bhagiratha, che implorò di far discendere il Gange sulla terra, in modo da salvare i propri antenati. Brahmā chiese a Bhagiratha di pregare Śhiva, perché attenuasse la forza del Gange nella sua discesa sulla terra, altrimenti l’impeto del fiume avrebbe potuto mandare in frantumi l’intero pianeta. Śhiva era l’unico ad avere la forza di compiere questo atto. Bhagiratha quindi riprese la propria penitenza per propiziarsi il dio Śhiva e dopo un anno celeste Śhiva stesso apparve e decise di assecondare la richiesta dell’asceta. La testa della divinità ricevette il potente urto della massa d’acqua rallentandone l’impeto e facendola scorrere dolcemente sulle vette dell’Himalaya fino all’India.

Il bassorilievo è certamente un’opera di grande impatto scenografico in quanto al centro, in passato, doveva esserci una vera e propria cascata d’acqua che scorreva sfruttando una preesistente cavità della roccia e simboleggiava proprio la Grande Madre Ganga, cioè il fiume Gange.

Al di là degli intricati miti narrati, lo scopo di questa opera così intensa e singolare, rimane un mistero. Non ci sono fonti scritte che possano testimoniarne la funzione.

Trovandosi alla base dell’altura sacra ne rappresenta di fatto l’ingresso e quindi poteva essere un monito o un invito al raccoglimento, alla meditazione.

Tutta la collina di Mamallapuram è avvolta da un’atmosfera magica. La sua unicità si percepisce specialmente il mattino presto, quando ancora sono pochi i devoti che migrano lenti da un tempio all’altro, intonando preghiere devozionali.

Questo luogo sprigiona bellezza e armonia ma soprattutto sembra totalmente incurante del passare del tempo e del progresso. E’ stato pensato così chissà quanti secoli fa e così rimane, ad ogni alba uguale a se stesso, con i canti, le invocazioni, la moltitudine di pellegrini, la cui presenza regala un’energia davvero irripetibile.

Non posso far altro che unirmi ai mantra per ringraziare di aver scoperto un posto tanto incantevole.

Non si va nei templi per cercare le divinità perché Dio te lo porti già dentro di te: è un’entità che non ha forma visibile. Sono gli artisti che, attraverso i secoli e le diverse latitudini, per permetterci di visualizzare il divino, offrono una sembianza, un nome, un colore, una voce, una storia. Si va nei templi per ritrovare sé stessi.

1 Manuel Agnelli, Se Io Fossi Il Giudice, Folfiri o Folfox, 2016. E’ il medesimo brano citato nel primo racconto “Provare a Vivere”.

Ivo Stelluti, Il Viaggiator Curioso,
Rameshwaram, Tamil Nadu, India
28 Aprile 2018.