Lo stile è inconfondibile: masse scultoree e corpi monumentali tagliano l'aria e lo spazio circostante. La scultura si alimenta della linfa classica, che tuttavia non è nostalgia per il passato, ma bellezza, immaginazione, armonia. Ulisse rema, puntando verso l'amata patria, verso la dimora, perchè come avrebbe scritto Leonardo da Vinci: "Muovesi l'amante per la cos'amata come il senso e la sensibile e con seco s'unisce e fassi una cosa medesima. L'opera è la prima cosa che nasce dall'unione. Quando l'amante è giunto all'amato, lì si riposa. Quando il peso è posato, lì si riposa". E giusto il riposo è negato alla scultura di Paolo Borghi, collocata nel parco di Villa – o Castello, come qualcuno la chiama – Ponzoni di Malnate. L'opera, "direzionata", orientata verso una direttrice, così come avviene in molte altre dell'autore, è sfregiata dall'incuria e ricoperta da scritte e tags di writers.
Il bisogno stupido ed inutile di lasciare la propria firma, il proprio "sono passato da quì" sfigura la superficie della
scultura, nasconde e cancella la massa immobile, la forma coagulata. Ulisse, la sua casa e i suoi affetti sono inquinati da ingombri fatti di scritte e firme, segni che negano all'opera l'urto spaziale, la classicità e, in un certo senso, l'immortalità. Il ritorno a casa è ancora più lontano, e il viaggio è fiaccato dall'intromissione della superbia e dell'arroganza di chi, incapace di osservare, guardare e stupirsi, pensa di essere autorizzato a lasciare il proprio nome sulla superficie. I veri writers rispettano l'arte e non "taggherebbero" mai sopra statue, opere d'arte o monumenti. L'Ulisse di Paolo Borghi è – per il momento – ammutolito, allontanato com'è dal suo sogno ellenico, dal teatro scavato e plasmato dalla poesia, dalla grecità che, passata da Bernini, Canova, De Chirico, vorrebbe giungere sino a noi.