Varese – Sono passati 74 anni da quando le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Era il 27 gennaio 1945 e quando le truppe sovietiche entrarono non sono poterono sentire le testimonianze dei sopravvissuti ma videro con i loro occhi le torture e i metodi di uccisione di massa dei nazisti. Quel giorno scoprirono l’orrore che era accaduto.
74 anni dopo, tutto il mondo, continua a ricordarlo.
Oggi non si ricorda soltanto quello che è successo all’interno dei campi di concentramento perchè il male nazista è cominciato dalla promulgazione delle leggi razziali ed ha continuato in modo lento e subdolo togliendo dignità e libertà all’individuo e finendo, simbolicamente e non solo, con la camera a gas.
Il nazismo è stato vissuto da moltissimi uomini e donne in modi diversi, chi l’ha visto, chi l’ha affrontato, chi ci è sopravvissuto.
Inizierei parlando di una bambina che ha annotato sul suo quadernone, segregata in una soffitta con la sua famiglia, un diario in cui giorno per giorno racconta quanto stava accadendo. Quella bambina era Anna Frank che nel suo diario scriveva: “Non ho affatto intenzione di far leggere ad altri questo quaderno rilegato di cartone“.
E invece, ancora oggi, è per noi un frammento di poesia in mezzo a tutto quell’orrore.
Anna Frank è una bambina di tredici anni che vive ad Amsterdam e si vede piombare addosso il Nazismo, Hitler, i tedeschi, le persecuzioni; vive due anni chiusa in un “nascondiglio segreto” e da li, dalle poche notizie che riuscivano a ricevere attraverso gli amici, i rari giornali, le incapibili comunicazioni radio, ha conosciuto il nazismo, si è preparata a questo mostro che giorno per giorno divorava tutto quello che la circondava, fino al giorno in cui i tedeschi sono arrivati e tutte le speranze di una bambina rivolte alla bontà degli uomini vengono inghiottite, in otto mesi, in un campo di concentramento.
Prova anche tu,
una volta che ti senti solo
o infelice o triste,
a guardare fuori dalla soffitta
quando il tempo è così bello.
Non le case o i tetti, ma il cielo.
Finché potrai guardare
il cielo senza timori,
sarai sicuro
di essere puro dentro
e tornerai
ad essere felice.
Fu Natalia Ginzburg a scrivere la prefazione del Diario di Anna Frank del 1957, un’altra donna toccata, distrutta dal fascismo, che dice parlando di Anna: “Di questa voce, noi serbiamo nella memoria la vibrazione fiduciosa e serena, la bontà coraggiosa che ha superato la morte.”
E di morti, di uomini che hanno combattuto il nazismo e non sempre ce l’hanno fatta Natalia ne ha conosciuti tanti, e tanto vicini a lei. Primo fra tutti l’amatissimo marito, Leone Ginzburg: venne arrestato più volte dai fascisti fino a quando, a Regina Coeli, dopo giorni di torture perchè non accettava di collaborare, morì. Natalia è stata vicino al marito in ogni fase del suo antifascismo, al confino, durante gli arresti: ha vissuto quello che il fascismo poteva togliere.
E a lei ha veramente tolto tutto: il padre Giuseppe Levi, che fu costretto al carcere e all’esilio, e suo fratello, Gino, che durante la lotta al fascismo riuscì a salvare molti ebrei.
Mentre il marito si trovava in carcere per non essersi abbassato alle leggi razziali e al fascismo, poco prima che morisse per le torture subite, Natalia Ginzburg gli dedicava una poesia
Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.
Comprano libri e giornali, muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
Ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto,
Solo un poco piu’ stanco. E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle
Che spezzavano il pane e versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
A guardare il suo viso per l’ultima volta.
Se cammini per strada, nessuno ti è accanto.
Se hai paura, nessuno ti prende la mano.
E non è tua la strada, non è tua la città.
Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri,
Degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra
E guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c’era la sua voce serena.
Allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
E deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.
Uno dei più grandi amici di Natalia Ginburg, colui che l’ha sostenuta anche quando non ne era del tutto convinto, fu Primo Levi, l’autore di Se questo è un uomo.
Primo Levi fu un partigiano e un antifascista, finì nel campo di concentramento di Auschwitz perchè quando lo trovarono i tedeschi, su una montagna con altri partigiani, preferì dichiararsi ebreo. Era chimico e questo gli permise di lavorare in fabbrica e di procurarsi del cibo: quando riuscì ad andarsene da quell’inferno il viaggio verso l’Italia fu lungo e tormentato e anche una volta qui non riuscì mai a dimenticare quello che aveva vissuto.
Quindi un altro uomo, un altro destino, un’altra vita che il nazismo ha rovinato, in modo diverso. Primo Levi scrive Se questo è un uomo in Italia, appena riesce ad arrivarci. E’ ossessionato dal bisogno di raccontare quello che aveva visto, quello che si viveva nei campi di concentramento, come stavano le persone laggiù.
Non era in realtà un grandissimo letterato, prima di quel romanzo, difatti Natalia Ginzburg, come altri scrittori del tempo, non lo premiarono. Ma l’unico a vederci lungo fu Italo Calvino, che lo sostenne sempre, nonostante inizialmente le vendite non furono quelle che ci aspetteremmo. Oggi sappiamo che quello contenuto in Se questo è un uomo è un capolavoro
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Vorrei chiudere ricordando il nazismo, questo mostro che ha gettato un’ombra su tutto quello che lo circondava, da un altro punto di vista, quello di una donna: Joice Lussu. Lei è una scrittrice e poetessa italiana, infatti si chiamava Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti. Era una ribelle, una donna fuori dalle righe, ha sempre cercato di evitare il nazismo per non doversi sottomettere, si spostò dalla Germania alla Svizzera per continuare gli studi quando nacquero le prime leggi naziste. Lottò tanto, sempre, tutta la sua vita. E lo fece con ogni mezzo possibile: partecipando alla guerra partigiana e poi scrivendone tre libri, perchè il nazismo andava combattuto sia sul campo che nella mente delle persone. Non ha mai ceduto, non è mai scesa a compromessi, non ha mai finto di accettarli.
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald.
Più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald.
Servivano a far coperte per i soldati.
Non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas.
C’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald.
Erano di un bimbo di tre anni,
forse di tre anni e mezzo.
Chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni,
ma il suo pianto
lo possiamo immaginare,
si sa come piangono i bambini.
Anche i suoi piedini
li possiamo immaginare.
Scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti
non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald,
quasi nuove,
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole…
Joice non è stata in un campo di concentramento, ma non le serviva, sapeva esattamente qual’era l’orrore che stava accadendo, sapeva contro cosa combattere, ha vissuto in guerra per moltissimi anni e ha visto fare ai tedeschi cose che non credeva possibili.
Quattro autori diversi, con quattro esperienze diverse: una bambina di tredici anni nascosta in una soffitta di Amsterdam combattuta tra noia e gioia di vivere, paura e speranza negli uomini. Una donna forte e indipendente che aveva vissuto a Torino e che aveva visto la sua famiglia disgregarsi e andare in pezzi, per colpa del fascismo. E poi Primo Levi, un uomo che all’inferno c’è stato, è riuscito a salvarsi ed è tornato indietro, per raccontarlo. E infine Joice Lussu: una combattente, una guerriera pronta a fermare tutto e tutti, ha guardato i fascisti dritto negli occhi, li ha attaccati su tutti i fronti e ci ha ricordato per cosa combattere. Eppure queste quattro storie hanno qualcosa in comune: quelle parole messe una dopo l’altra con lo scopo di raccontare e raccontare ancora affinchè nessuno mai possa dimenticare quello che è stato.