Milano – Per Carlo Levi furono due le città che contarono, non solo per la pittura: Torino e Parigi. La prima, dove nacque nel 1902 in una famiglia della buona borghesia ebraica, perché da lì prese avvio la sua formazione artistica nello studio di Casorati; la seconda perché gli schiarì occhi e mente e gli fece intendere da che parte stare e quale via prendere. Vivere in queste due città offriva poi anche occasioni di incontri che lasciavano il segno e per Torino converrà ricordare il suo essere amico di Piero Gobetti con cui condivise l’avversione convinta al fascismo (d’altra parte non poteva essere se non così pensando che la madre era sorella di Claudio Treves) e l’ambiente fervido di artisti dal linguaggio moderno. Tra loro il gruppo dei Sei di Torino, di cui Levi fu figura di spicco, sostenuto da critici come Lionello Venturi, G.C. Argan e Mario Soldati e da quell’irripetibile imprenditore che fu Riccardo Gualino. Quest’uomo di affari e di cultura aveva nella sua dimora di via Galliari ben sette Modigliani e giusto questo artista sarà una delle fonti di ispirazione per Levi, un’ispirazione costante, anche se via via manipolata, per ritratti e nudi femminili dai colori teneri ma dalle linee che da morbide si facevano col passare degli anni nervose e “ondose”.
Nei suoi assidui soggiorni a Parigi, anche per far da tramite fra antifascisti torinesi e rifugiati in Francia, v’era allora tanto da guardare e da scegliere e Levi si trovò in sintonia soprattutto con la forza del colore dei fauves e la vertigine sconcertante di Soutine. Si mise sullo stesso loro percorso, ma discosto, con una energia sua che gli derivava anche dalla intensa attività politica, dal carcere e dal confino subiti e a questo punto non si può non ricordare Cristo si è fermato a Eboli, il suo libro che tutti abbiamo letto ai tempi del liceo.
Carica di questo bagaglio così ricco e complesso la pittura di Carlo Levi si può vedere ora in una antologica aperta fino al 30 ottobre alla Galleria Silva di via Borgonuovo 12 a Milano. Si tratta di una rassegna non vasta, ma sapientemente e amorevolmente impaginata da Lucia Silva con scelte non casuali, convincente lungo tutto il percorso a partire dagli avvii accademici e dalle delicate vedute di Parigi e di Alassio degli ultimi anni Venti. Vennero poi i monotipi (La prigione di Torino, dove le dure sbarre sono quasi annullate da un gioioso balenio di fiori), una tecnica appresa da Luigi Spazzapan. A questo artista, e prima ancora amico, Levi fece più di un ritratto come li fece a De Pisis, Tosi, Guttuso, Neruda, C.E. Gadda e a Frank Lloyd Wright. Oltre che a Paola Olivetti con cui visse, riflessa nella tela Figura in rosso, una intensa storia d’amore prima di sposarsi con Linuccia Saba, la figlia del poeta triestino.
Davvero nelle opere esposte alla Galleria Silva, siano esse figure, ritratti, nature morte, fiori o gli amati Gufi, si coglie incessante un lavorio febbrile e palpitante e il respiro che è dentro la verità delle cose. E il senso della vita: intensa come fu quella di Carlo Levi.
Giuseppe Pacciarotti