Legnano – "Una casa in campagna. Una babysitter, naturalmente un bambino, una lavatrice, il Premio Città di Zurigo, una lavastoglie, una moglie in pelliccia di ocelot, una Fiat, unghie sempre pulite e pantaloni con la riga. Come dice la mia cara sorella gemella Erna: 'Adesso sei completamente imborghesito. Più in basso di così non puoi scendere'".
Così Varlin, in un passo autobiografico. Varlin, al secolo Willy Leopold Guggenheim, nato al principio del secolo, il 16 marzo del 1900, famiglia dell'alta borghesia ebraica, presto destinata alle ristrettezze economiche, uno di quei folli geni che ha cantato l'horror vacui, l'ironia e la stoltezza, in una altissima profondità di pittura, pur scegliendo, circondato dall'affetto e dalla stima delle migliori menti europee, la provincia del mondo
Sarà Varlin e non solo Jean Rustin, altro acuto cantore dei diseredati, a battezzare Sale (Spazi d'arte Legnano) voluti dall'amministrazione e coordinati da Flavio Arensi che firmerà la mostra – una cinquantina le opere esibite – in collaborazione con la figlia di Varlin, Patrizia, e il contributo in catalogo di quanti oltre al pioniere Giovanni Testori, contribuirono a certificarne la grandezza di anarchico, appartatato, "ritirato, incantinato", pittore, grande proprio in quanto tale: Roberto Tassi, Vittorio Sgarbi, Stefano Crespi.
La mostra dallo splendido titolo L'ironia, la cenere, il niente, prende l'abbrivio proprio dallo sdoganamento che dell'opera e della figura di Varlin ne fece Giovanni Testori, intimo amico nell'apparatato rifugio ticinese di Bondo, nel 1976, quando una antologica alla Rotonda della Besana di Milano, lo presentava per la prima volta al pubblico italiano: L'ironia, la cenere, il niente era il titolo del saggio, il primo di una serie, che il critico allora dedicò all'artista.
Dopo quella occasione, altre se ne ripresentarono; la mostra voluta da Sgarbi a Parma, nel 1985, per restare in territorio di lingua italiana, l'importante retrospettiva del 1992 a Lugano curata da Rudy Chiappini e quella a Palazzo Reale, di Roberto Tassi. Nel frattempo però Varlin eragià deceduto, proprio all'indomani della mostra milanese del 1976.
Questa di Legnano, che recupera alcune struggenti vedute veneziane e francesi, i suoi primi dipinti e gli ultimi realizzati poco prima di morire, nell'atelier di Bondo, dove l'"associazione dei danneggiati" – fra cui Frisch, Dürrenmatt, Cartier Bresson, Testori – era sempre più spesso di casa e di cui rimangono esemplari magnifici di ritratti nella maniera varliniana, cade dunque nel trentennale della morte dell'artista.
Che ha dovuto attendere di superare i cinquant'anni per vedersi aprire le porte di un museo, che ha visto dissipare il patrimonio di famiglia, non per colpa sua; che ha percorso, con i suoi modelli da strada, il carretto funebre, l'ombrello, la sedia, il letto sfatto, il cimitero, le insegne dei negozi, le sue mucche in omaggio a Segantini, i corsi della pittura degli ultimi cento anni con una umiltà spudorata e senza snobismi di sorta.
Alternativo, ne diede così le stimmate della grandezza Testori, alla pittura del Novecento per aver compreso, in maniera, ironica e drammatica al tempo l'inabitabilità dello spazio, l'impossibilità di coordinate e certezze; che sulle sue tele si spalancano, di fatto, in abissi di prospettive e di materia, di segni.
Paragonabile e alternativo per grandezza a Bacon, a Giacometti. Senza la mitologia della città, senza la mitologia della bohème, senza essere un maledetto a tutti i costi. Disposto a molta solitudine, lontano, nella provincia, nella provincia della inquietudine. Con la paura di perdere di vista il senso o il non senso delle cose, per avere raggiunto, a 66 anni, un figlio, una lavatrice, la piega dei pantaloni.