Supporti storici, vari tipi di degrado, proposte d’intervento, modalità di conservazione degli originali e nuove frontiere digitali.
Ebbene sì, anche le pellicole cinematografiche possono essere riconosciute come bene d’interesse culturale e, in quanto tali, devono essere tutelate e valorizzate al pari di monumenti o opere d’arte.
Nei giorni scorsi a Olgiate Olona si è tenuto il terzo incontro del ciclo di conferenze Restauri Rari incentrato sul restauro conservativo delle pellicole cinematografiche con l’esperta Flavia Barretti. Molti gli argomenti toccati durante l’incontro che ha visto la Sala conferenze di Villa Gonzaga gremita di curiosi e appassionati.
Ma, andiamo con ordine.
Fu George Eastman il primo a produrre la pellicola in bianco e nero Kodak a base di celluloide nel 1885 come supporto per il bromuro d’argento, un materiale fotosensibile.
Di lì a poco però, a causa dell’alta infiammabilità del composto, fu introdotto prima il triacetato di cellulosa, supporto più diffuso a livello mondiale e, successivamente, il poliestere più flessibile e resistente, ma anche più sottile.
Vista la quantità di film che da allora sono stati prodotti, le problematiche cui furono sottoposti e le condizioni in cui (presumibilmente) furono conservati, non ci risulta poi così strano che esista un ramo del restauro che si dedica esclusivamente alla conservazione delle pellicole cinematografiche. E, come tutte le attività che di restauro si occupano, anche quello cinematografico è volto al recupero di vecchie pellicole (o film) da parte di esperti del settore al fine di preservarne le immagini e i suoni in esse contenute.
Quali sono i tipi di deterioramento?
Come intervenire?
Il deterioramento della pellicola (o film) può essere di tipo meccanico – graffi, rotture o perforazioni – organico – muffe – oppure causato dalla così detta sindrome dell’aceto, che interessa solo le pellicole a colori.
Riconosciuto il tipo e il grado di deterioramento di un film, si può procedere al suo restauro che (tralasciando la casistica infinita) consiste, essenzialmente, nel ripristino e nel rinforzo delle perforazioni e nella rigenerazione delle giunte.
La tecnica analogica (o fotochimica), principale metodo di restauro cinematografico in uso per diversi decenni del Novecento, è stata integrata (e non sostituita), con l’avvento del nuovo millennio, dalla tecnica digitale che ha permesso di ottenere grandi risultati, specialmente nell’integrazione di parti danneggiate o del tutto perse.
MIC – Museo Interattivo del Cinema
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Giulia Lotti