Milano – “Milano nel 1906”, una guida della città pregevole per ricchezza di informazioni, destinata a chi veniva in visita all’Esposizione Internazionale del Sempione, riservava spazio ragguardevole a via Dante e ai suoi palazzi. “A prima vista – così si poteva leggere a pagina 99 – nessuno degli edifici di questa contrada assume speciale rilievo ma ciò è dovuto al fatto di essere la via perfettamente rettilinea, colle gronde dei singoli fabbricati ricorrenti allo stesso livello, coll’identico numero di piani per tutti gli edifici: ciò in omaggio a speciali prescrizioni imposte coll’intento di ottenere un buon risultato nei riguardi architettonici. Eliminata però la prima impressione di uniformità nel complesso, l’attenzione è richiamata dalle fronti di alcuni edifici, la cui decorazione raggiunge un effetto notevole, vuoi per la genialità a cui è improntata, vuoi per l’armonia e la correttezza delle linee ornamentali”. Seguiva poi la descrizione dei palazzi, ma per essa è più vantaggioso fare riferimento a quanto – ed è veramente tanto – si legge e si vede su un ponderoso volume (Roma, Gangemi 2020) dal titolo Via Dante a Milano, Una strada e la sua architettura nella città europea del XIX secolo. Ne è autore Pierfrancesco Sacerdoti, uno studioso particolarmente attento all’architettura del tardo Ottocento e del primo Novecento come anche ha dimostrato, e nel migliore dei modi, trattando dei rapporti e delle influenze fra Silvio Gambini e il liberty milanese nel convegno Busto in liberty svoltosi nel 2019 a Palazzo Marliani, Cicogna. Con meticolosità e competenza davvero esemplari, riservate non solo ai decori delle fronti, ma anche alle strutture e alla disposizione degli spazi interni, Pierfrancesco Sacerdoti ha indagato sulle ragioni e sulle scelte del rinnovamento radicale, anche a costo di demolizioni di palazzi nobiliari, dell’area tra il Castello Sforzesco e il Duomo comprendente anche lo slargo ellittico del Cordusio. Tutto incominciò a seguito del piano regolatore dell’ingegnere Cesare Beruto del 1884: si incominciò nel 1887 con la presentazione dei primi progetti degli edifici; nel 1892, con incredibile celerità dei cantieri, l’ultimo palazzo della via, dal 1891 intitolata a Dante Alighieri, era ultimato.
Per accentuare la qualità delle proposte architettoniche, ma anche per accelerare i lavori, il consiglio comunale istituì fin “premi da conferirsi alle migliori fabbriche” destinati ai proprietari delle case, quasi sempre coincidenti con gli stessi progettisti. Il primo premio, di 25 mila lire, lo vinse l’architetto Giuseppe Pirovano per il palazzo in angolo con via Giulini marcato al piano strada e nell’ammezzato da un insistente bugnato e con qualche riferimento nei superiori alla fronte michelangiolesca di palazzo Farnese a Roma. Sapientemente indagati da Sacerdoti i vasti e vari riferimenti culturali di tutte le facciate ispirati, come era allora in auge, soprattutto ai modelli cinquecenteschi, solo talvolta alleggeriti dal color rosso alla lombarda o da bifore, tuttavia sempre a tutto sesto perché lì lo stile gotico proprio non si addiceva.
Gli ingegneri e gli architetti attivi a Milano, allora tutta coinvolta da gran fermento edilizio, non mancarono la ghiotta opportunità di mettere in mostra in una zona così prestigiosa e di riferimento le aggiornate capacità tecniche e i colti linguaggi formali, forti, i più, di una preparazione forgiata nelle aule della Scuola speciale di architettura, alias Politecnico: tra loro primeggiarono Luigi Broggi, Antonio Citterio, Giovanni Giachi e appunto Pirovano, il vincitore del primo premio a cui si è accennato.
Nessuno mancò l’intento di offrire un volto “moderno” ai palazzi di questa arteria destinata a diventare un centro pulsante, ospitando da subito negozi e uffici affacciati sulla strada mentre nei piani superiori erano disposti appartamenti grandiosi e sontuosi. In una Milano che era ormai la capitale dell’industria e dei commerci, via Dante diventò quindi non solo il luogo privilegiato per l’esibizione degli orientamenti stilistici dei progettisti, ma anche lo specchio delle scelte estetiche della borghesia imprenditoriale: con il palco alla Scala e la villa in Brianza o sui laghi, venire ad abitare in un palazzo di via Dante diventava per essa un blasone. E il coronamento definitivo della ascesa sociale.
Giuseppe Pacciarotti