Tira un forte vento da ore, s'infila senza barriere nel vallone che digrada da Viggiù verso la Valceresio, dove ha casa e laboratorio Virginio Gussoni. “Gino” per gli amici lavora da tanti anni la pietra ad arte, a regola d'arte, mestiere ereditato dal padre e risalente nella sua famiglia, viggiutese doc, ad almeno 200 anni addietro.
Viggiù era paese dei “picasass”, grazie alle vicine cave proliferavano le botteghe di marmisti e germinavano stuoli di scalpellini, valenti scultori. Gli Argenti, i Butti, i Bottinelli non ci sono più, rimangono i loro nomi e i loro lavori, ma Virginio Gussoni è un figlio di Viggiù che porta avanti la fiaccola, pronto a lasciarla nelle mani del figlio. Le fronde si agitano come flutti ma la pietra sta immobile nel vento, fuori del laboratorio un'opera di un grande scultore del '900 attende pazientemente le mani del Gino.
Di che lavoro si tratta?
Dovrò riprenderla, me l'hanno portata perché così non va, non funziona. Può succedere, nella trasposizione in grande da un bozzetto, di smarrire l'originale, la sua forza vitale.
E allora ci pensa il Gussoni…come si fa? Qual'è il segreto?
Leggere il modello, occorre leggere il modello.
Vale a dire?
Osservare attentamente e interpretare il modello dell'artista. A me viene naturale, con gli anni mi sono fatto l'occhio e so come va trattato il marmo, la pietra, il granito. Gli artisti non sempre si rendono conto delle proprietà e delle possibilità della materia.
Dunque non si tratta di una pura esecuzione meccanica…
Nel mio caso, no. Naturalmente la tecnica va conosciuta, ma non basta, per arrivare a un risultato soddisfacente.
Quanto conta il rapporto con l'artista, che è l'autore alla fin fine dell'opera?
E' fondamentale il tipo di rapporto che si crea. Non deve stupire che l'artista ci mette l'idea, il disegno, il modello, e ad altri tocca l'esecuzione del lavoro. E' sempre stato così, nella scultura. Tutti gli scultori si sono serviti di aiuti, di una bottega, Michelangelo compreso.
Ma ogni artista è poi diverso…
Certo, anche nel mio caso ho lavorato con artisti che non cercavano il dialogo e con altri più disponibili. La mia idea è di lavorare insieme all'artista, che ci sia uno scambio e anche una discussione. Poi, è ovvio, l'ultima parola spetta all'artista, che firma l'opera.
E' noto che lei è stato per tanti anni lo scalpellino di fiducia di Floriano Bodini, anche se scalpellino è un termine riduttivo: che ricordo serba di quel sodalizio?
Guardi, con Bodini era il massimo, vi era un rapporto di stima, fiducia e collaborazione totale, felice, quasi incredibile. Il rapporto professionale e quello umano andavano insieme. Abbiamo realizzato tanti lavori importanti e lui mi coinvolgeva sempre, fin dalle prime fasi di una commissione.
Bodini ha mai scolpito il marmo?
No, ma come le dicevo non è il primo scultore così e non c'è da scandalizzarsi. Si fidava di me, parlavamo e ci confrontavamo sul lavoro da eseguire o in corso d'opera. Lui aveva l'occhio fresco e vedeva cosa bisognava fare, mi guidava, così come io dicevo la mia, in base alla mia esperienza. Con il marmo, non ci si può improvvisare.
E' vero che, a un anno dalla scomparsa, sta ancora lavorando per Bodini?
Sì, sto portando a termine un altare e una colomba, seguendo i suoi disegni. Ma potrei andare a memoria, ormai. So per esempio i segni che lui avrebbe aggiunto, del resto negli ultimi anni mi forniva soltanto i disegni, di me si fidava ciecamente. Una specie di simbiosi, che ha insegnato tantissimo a entrambi.
Che cosa sarebbe l'ultimo quindicennio creativo di Bodini, senza Gussoni?
Non saprei, so soltanto che agli inizi diffidava del marmo, non lo conosceva e non lo amava, ci ha messo 5/6 anni per tirarne fuori qualcosa, per piegarlo al suo linguaggio. Io gli ho messo a disposizione la mia esperienza di anni, lui si è dimostrato umile, abbiamo avuto un'intesa unica. L'idea, la forma, l'invenzione erano sue, con il marmo e la pietra non faceva niente senza di me. Bodini non conosceva la bellezza del nero di Saltrio, gliel'ho fatto scoprire e lo amava molto, ne sono usciti alcuni ritratti. A scegliere i blocchi di marmo mandava me, a Carrara: mi chiamava "ginecologo", tanto ero pignolo.
Quanto conta la scelta del materiale?
Mio padre, che mi ha insegnato questo mestiere, che mi faceva arrabbiare perché a lui veniva tutto facile, diceva che il 50% del risultato di un'opera sta nel materiale. Se la materia di partenza è buona, tutto diventa più facile e soprattutto il cliente non avrà mai da ridire.
Il marmo, la pietra, il granito, “parlano”?
Sì, e bisogna saperli ascoltare, fare quello che ti dicono. Personalmente, agli inizi ci vado adagio, mi prendo tutto il tempo, per capire come affrontarla. Poi, vado spedito. Guai alla fretta! Il marmo non perdona. Tanti artisti ci provano, ma finisce che lasciano perdere. Ci vuole una gran forza nelle mani ma soprattutto confidenza e sicurezza. Queste vengono soltanto con il tempo.
Che cosa pensa dei laboratori di Carrara? Sono ancora i primi al mondo?
Secondo la mia esperienza, praticano una divisione del lavoro che nuoce al risultato finale. Le diverse mani, anche se abili, si vedono.
Qui fa tutto lei, dalla sbozzatura alla messa ai punti alla lucidatura?
Sì, ci tengo, e mi prendo tutto il tempo necessario. Con un'opera d'arte non si può scherzare, a volte ci sono voluti anni per trovare la materia giusta o la soluzione giusta.
Virginio Gussoni, chi continuerà il suo lavoro?
Mio figlio, che ha deciso così, senza imposizioni. Sta imparando il mestiere, deve rubare il mestiere, anch'io come lui agli inizi faticavo, non capivo, ma se insiste, se questo lavoro gli piace, sono sicuro che continuerà la tradizione di famiglia.
Sulle pendici del Sant'Elia il vento continua la sua furia. Virginio Gussoni emana una calma e una serenità stupende. Non si dà arie – e ne avrebbe tutti i motivi – non ha fretta, soprattutto. La pietra gli ha insegnato la lentezza, il segreto del tempo. Tutti i colpi che ha dato, erano giusti, dosati, coscienti. Ammalatosi insieme a Bodini, Gino ne è uscito, continua a lavorare, ad essere cercato e richiesto. Il vento non lo smuove. Getta uno sguardo all'opera nuova che l'attende. Due mesi almeno. C'è tempo. Ci vuole tempo.