Milano – La 13ª edizione del Mia Fair ha chiuso i battenti domenica 14 aprile, lasciando dietro di sé un’eco di voci femminili ribelli ed espressioni d’arte che hanno scosso il panorama della fotografia internazionale. Con la partecipazione di oltre 70 gallerie provenienti da tutto il mondo, l’evento, organizzato da Fiere di Parma e curato artisticamente da Francesca Malgara, ha posto al centro il tema universale del cambiamento.
Tra le molteplici opere esposte, grande risalto è stato dato alle fotografe, le cui creazioni hanno offerto uno sguardo profondo e coinvolgente sul loro impegno sociale e politico, conducendo gli spettatori in un viaggio attraverso le complesse sfumature della condizione femminile.
Un’opera che ha catturato particolarmente l’attenzione è stata quella dell’autrice iraniana Mehrnoosh Roshanaei, presentata dalla Red Lab Gallery di Milano. Attraverso un’animazione video intitolata “Lullaby”, Roshanaei ha saputo trasmettere con intensità l’intento del movimento “Donna, Vita, Libertà” che sfida le norme tradizionali, discriminatorie e autoritarie, rappresentando una eclissi lunare che simboleggia il sogno, che all’improvviso si trasforma in distruzione, metafora della tragica realtà vissuta dalle donne in Iran.
Il progetto di Roshanaei è un tributo alla recente storia iraniana e alla memoria di Mahsa Amini, giovane donna curda, barbaramente uccisa per non aver rispettato l’obbligo discriminatorio di indossare correttamente il velo. L’omicidio di Amini ha scatenato una fervente ondata di proteste in tutto il paese, con la conseguente esecuzione capitale per centinaia di manifestanti e il loro maltrattamento da parte delle autorità. La canzone che accompagna il video, una ninnananna cantata dalla mamma di una delle manifestanti, viene interrotta dal grido delle ultime parole della ragazza, anch’essa uccisa: “Non abbiate paura, siamo tutti insieme…”. Segue il suono di uno sparo . E poi la distruzione.
L’artista riesce a catturare l’essenza di una lotta per la libertà pagata a caro prezzo con il sacrificio di molte vite. Quello che si ascolta non è un fake, non è un film, ma la realtà, assurda e cruenta.
La ricerca della libertà non conosce confini nel mondo dell’arte, come testimonia la Galleria Tallulah Studio Art, fondata da Patrizia Madau, una donna brillante e visionaria che presenta un progetto intitolato “Because you are a woman”, una narrazione avvincente sull’universo femminile e sulla sua forza intrinseca.
Tra gli artisti coinvolti, spicca l’impegno politico della fotografa israeliana Dina Goldstein, che utilizza la staged photography come strumento per sfidare e decostruire gli stereotipi di genere. Le sue opere, caratterizzate da un tono ironico, affrontano tematiche sociali come la religione, gli abusi di potere e l’oppressione maschilista, offrendo una prospettiva critica e provocatoria.
Goldstein si oppone fermamente all’idea delle donne come guardiane del focolare o principesse da salvare, e attraverso i suoi Tableaux audaci e irriverenti, sfida il tradizionale processo narrativo patriarcale. Incorporando personaggi iconici come Barbie o Biancaneve, l’artista invita il pubblico a riflettere sulle convenzioni di genere e a esplorare nuove prospettive sulla femminilità.
Le fotografie di Lee Ann Olwage, esposte dalla The Bridge Gallery, raccontano le storie delle ragazze Masai in Kenya, che affrontano il duro destino del matrimonio precoce e della mancata istruzione. Attraverso il progetto “Right to Play”, Olwage trasmette un messaggio di speranza e di emancipazione, celebrando la determinazione e i sogni di queste bambine.
Il lavoro di Olwage si ispira alla storia coraggiosa della dottoressa Kakenya Ntaiya e al suo impegno associativo per porre fine alle pratiche di mutilazione genitale femminile da lei stessa subite, e ai matrimoni forzati nelle zone rurali del Kenya. Attraverso il suo obiettivo, Olwage rende omaggio alla forza e alla resilienza di queste ragazze, offrendo loro uno spazio per esprimere la propria identità e i propri desideri.
Con l’opera dell’egiziana Najia Said e della ivoriana Laetitia Ky, entrambe classe 1999, si delinea un quadro di resistenza e ribellione attraverso le loro storie straordinarie e la determinazione a sfidare le norme patriarcali e a rivendicare la propria identità.
La serie “Sister, Oh Sister” di Said, esposta dalla Gallery of Contemporary Art, diretta dall’intraprendente Stefania Angarano, esplora il significato di essere donna nel contesto del Cairo, creando uno spazio di libertà e autenticità per le donne arabe. In una delle fotografie del progetto si vede una ragazza che indossa una parrucca bionda, mentre prega sopra il tradizionale tappeto Sajadah, fondendo usanze religiose con elementi di una cultura liberale. Secondo l’autrice sono proprio i capelli che hanno assunto un ruolo centrare andando oltre il loro scopo biologico, diventando una componente essenziale della cosiddetta “femminilità”. Dice: “I nostri corpi sono governati, le nostre opinioni sono governate, il nostro linguaggio è governato, i nostri pensieri sono governati, le nostre decisioni sono governate, il nostro genere è governato. Essere donna al Cairo significa essere in costante rivolta.”
Similmente, l’opera di Laetitia Ky promuove la condizione femminile attraverso le sculture audaci realizzate con i propri capelli, per rivendicare l’identità africana. La Ky, trasforma i suoi capelli in sculture che rappresentano stati emotivi e la lotta delle donne. Colpisce particolarmente la scultura capillifera di serpenti. Vuole forse l’artista, come una moderna Medusa, pietrificare coloro che opprimono questa libertà?
Parallelamente, i dipinti della Ky, affrontano il tema dell’infibulazione, offrendo uno sguardo crudo e toccante sulla violenza inflitta alle giovani ragazze che inibisce la crescita del seno con la pratica dolorosa e violenta della stiratura.
Attraverso la potenza dell’arte, queste opere sollevano importanti questioni sulla discriminazione di genere e sulla necessità di proteggere i diritti e la dignità delle donne.
Infine, ma non per questo meno importante, la fotografa Johanna-Maria Fritz porta avanti il suo impegno documentario con il progetto “Like a Bird”, attraverso immagini coinvolgenti di una Palestina del 2016, che non esiste più, facendoci riflettere sulle complesse sfide e sulle speranze spezzate di questa terra martoriata dalla violenza e dalla conflittualità. Il giocoliere colorato in primo piano e i militari grigi senza volto al centro, creano un contrasto visivo e concettuale potentissimo, facendo divenire il dittico una icona dell’assurdità della guerra.
Il Mia Fair del 2024 si presenta come un palcoscenico potente e vibrante per la ribellione femminile e per la ricerca di giustizia e dignità. Attraverso le voci delle artiste e le loro opere incisive, siamo chiamati a riflettere sui soprusi del mondo e ad agire per un futuro più equo e inclusivo per tutti.
Come fotografa sento il bisogno di contribuire a questo movimento di cambiamento, per farne parte attivamente e apprezzare le opere che danno voce ai molti abusi affrontati dalle donne ancora oggi.
Marzia Rizzo