(Ritratto di Alberto Colombo - 1960 - Pittore Giuseppe Talamoni)
La figura del professor Alberto Colombo è riprodotta contro un’ariosa veduta di paesaggio nella quale si rintracciano i profili delle alture prealpine. Il dipinto firmato dal pittore Giuseppe Talamoni, pur ricordando in qualche modo i dettami della “classicità moderna” novecentista, è più addolcito nei tratti del volto dell’effigiato. Alcuni echi postumi delle istanze artistiche novecentiste, sono rintracciabili nel processo di sintesi e nella semplificazione di alcuni particolari: dal taglio squadrato delle spalle, rinserrate nella giacca, ai blocchi geometrici dei libri, visti di scorcio – e in prospettiva rovesciata – sul tavolo dietro al quale si erge la figura del benefattore.
La tela, datata 1960, riprende alcuni spunti dall’opera di Anselmo Bucci e di Alberto Salietti, sia nel respiro arioso del paesaggio che nel sicuro risalto della figura umana, modellata con discreto senso monumentale.
Dal ritratto gratulatorio firmato dal Talamoni si ricava il riferimento all’attività di studioso e docente di Alberto Colombo. Dei volumi sul tavolo si leggono distintamente due titoli: Elementi di chimica e La scuola salerniatana. Il Colombo, infatti, oltre ad essere docente di Scienze e Chimica per più di quarant’anni presso le scuole comunali e statali della città di Varese, fu autore di numerose pubblicazioni.
Alberto Colombo nacque a Varese il 9 aprile 1888 da Pasquale e Fiorina Bossi. Svolse gli suoi studi classici prima al Collegio San Pedrino e poi al Liceo Volta di Como. Nel 1906 si iscrisse alla facoltà di Farmacia dell’ateneo pavese e per alcuni anni fu direttore della farmacia ospedaliera e commissario straordinario dell’ordine dei Farmacisti della Provincia di Varese.
Morì il 10 luglio del 1959 all’Ospedale di Varese e fu sepolto nel cimitero di Giubiano.
Serena Contini ci riferisce di un documento rogato dal nipote del Colombo, all’epoca assistente alla cattedra di Chimica Generale all’Università di Pavia, con cui si rivolgeva al Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale, ringraziando per aver rinunciato “alle spettanze relative alla degenza del mio compianto zio, prof. Alberto Colombo (…) gesto, il cui valore trascende certo la somma”.
Con testamento olografo, depositato presso il notaio varesino Giuseppe Giani, Alberto Colombo aveva disposto il seguente legato in favore dell’Ospedale: “Lascio l’appartamento di mia proprietà, posto in Milano, Piazza G. Grandi 3, scala II, piano rialzato, con unito giardinetto, all’Ospedale di Circolo di Varese, in memoria dei miei genitori e di mio fratello Luigi, dei quali verranno conservati i ritratti ad olio a mezzo busto a mano dei pittori Guido Bertini di Varese.
(Ritratto di Alfredo Leonino - 1925 - Pittore Romeo Pellegata)
L’opera che ritrae il nobil’uomo di nazionalità inglese e di elezione varesina, è uno dei migliori esempi della ritrattistica del pittore Romeo Pellegata: il benefattore, effigiato a figura intera e con la destra nella tasca dei pantaloni, campeggia in un interno domestico reso con fluidità di tratto ed accentuato realismo. A tal proposito, risulta singolare la trovata del riflesso nello specchio con console, appeso alla parete di fondo, soluzione che tiene il dipinto lontano dalla freddezza di un ritratto ufficiale.
Una simile scelta rivela la volontà da parte dell’autore, di rendere accostante la presentazione del proprio modello, cogliendolo senza alcun paludamento in un momento di tempo libero, quale quello dell’accordo del grande pianoforte di casa.
L’opera, firmata dal Pellegata, è caratterizzata da tonalità soffuse, valorizzate da piccoli e sfumati tocchi impressionistici, fatta eccezione per il volto del benefattore, la cui fisionomia è restituita da minuziose e chiare pennellate.
Conservato in discreto stato conservativo, il dipinto riecheggia per impostazione ed esecuzione tecnica, la maniera di Cesare Tallone, di cui il Pellegata fu allievo a Brera per un certo periodo.
Alfredo Leonino, barone inglese che aveva scelto Varese come luogo di villeggiatura, morì il 26 marzo 1924, lasciando legati molto cospicui a favore di istituti di beneficenza1. Donò duecentomila lire all’Orfanotrofio Maschile di Varese; duecentomila lire alla Casa di Riposo, esprimendo il desiderio che le rendite fossero destinate all’istituendo reparto dei cronici; ottantamila lire all’Orfanotrofio Femminile e, attraverso di esso, alla Congregazione di Carità; ventimila lire all’asilo infantile di Casbeno. Alla Colonia Agricola Dandolo dell’Istituto Nazionale Piccoli Derelitti donava la sua villa di Varese. Infine, destinava cinquecentomila lire a favore dell’Orfanotrofio Martinitt di Milano.
(Ritratto di Angelo Cattini - Pittore Guido Bertini)
Il ritratto a mezzo busto di Angelo Cattini, risulta interessante soprattutto nella predilezione, da parte dell’autore, per una gamma cromatica calda ed intensa che richiama le opere di Baldassarre Longoni e Cesare Tallone e per il conseguente addolcimento dei contorni.
La pennellata di tocco del Bertini indugia su alcuni dettagli dell’abbigliamento come la stilografica che fa capolino dal taschino sinistro del personaggio o la catena d’oro dell’orologio appuntata sul panciotto.
Certo stupisce la resa fedele al vero del volto del filantropo che fissa, con sguardo profondo e consapevole, lo spettatore.
Sembra chiaro che la cospicua attività pittorica di Guido Bertini all’interno della Quadreria dell’Ospedale di Varese, si caratterizzi per alcune costanti stilistiche e compositive rintracciabili in molte altre sue tele. L’intonazione schietta e veritiera delle effigi, così come le pennellate pastose capaci di delineare l’ambientazione domestica entro cui sono raccolti i benefattori, fanno delle tele del Bertini uno degli insiemi più pregevoli della Quadreria cittadina. Sia nel ritratto di Carlotta Papetta vedova Carcano che in quello di Corinna Guaraldi vedova Beretta ma ancor di più nel ritratto di Luigi Sommaruga, l’autore dispiega la sua sintesi pittorica raffinata e capace di bandire ogni inutile orpello, la resa sapientemente offuscata dei dettagli lasciati sul fondo e la concentrazione sull’imponenza fisica e psicologica dei testatori.
La pennellata di tocco del Bertini, infine, contribuisce a stemperare l’espressione fissa del personaggio restituendo, attraverso una calibrata introspezione, tutta l’intensità dello sguardo e del carattere.
Quanto ai dati biografici dell’effigiato, allo stato attuale, non si possiedono notizie, né sono stati ritrovati documenti al riguardo.
(Ritratto di Angelo Macchi - Pittore Federico Gariboldi)
Appartenente alla fase matura dell’autore, il ritratto di Angelo Macchi si colloca nell’alveo della consolidata tipologia iconografica che vede il benefattore ritratto in controluce appoggiato ad una balaustra di un balcone.
La tela, inoltre, si presenta assai felice nella resa spontanea ed immediata del volto del raffigurato, decisamente più spontanea rispetto agli altri esempi dipinti dal Gariboldi e presenti nella collezione del nosocomio varesino.
L’autore, infatti, pare attenersi per quest’opera, ad un linguaggio fondato su un realismo dai toni oleografici, analizzando con precisione la figura di Angelo Macchi che si staglia su una veduta lacustre, trattata con leggerezza tale da non distogliere l’attenzione dal soggetto effigiato.
Sul piano formale e compositivo risultano evocativi i confronti con il ritratto di Anacleto Mariani e con il ritratto di Angelo Gatti, conservati presso l’Ospedal Maggiore di Milano, ma anco di più con il ritratto di Ernesto Odazio di Castel d’Isola Fusara che lo stesso Gariboldi eseguì per il nosocomio del capoluogo lombardo.
In questi esemplari, così come in quello dell’Ospedale di Varese, le pennellate leggere usate nel trattamento dello sfondo sono legate da tonalità luminose e da una luce rosata diffusa, quasi come in un’istantanea, priva però di insistenze descrittive.
L’artista, infine, adotta in quest’opera una tecnica più sciolta e libera, a differenza di altre opere sempre eseguite per l’Ospedale di Varese.
Allo stato attuale delle conoscenze, risulta per nulla agevole ricostruire il profilo biografico del munifico testatore. Il nome Angelo non compare infatti nella parentela del ben più famoso Silvio Macchi fondatore, assieme alla moglie Emma Zonda, del moderno padiglione chirurgico che ancora oggi è intitolato alla loro memoria.
Né risulta alcun Angelo nella celebre “dinastia Macchi” che vide nascere la celebre azienda aeronautica Niueport-Macchi, finanziata al principio del XX secolo dall’ingegnere varesino Giulio Macchi.
Anche per quest’opera, dunque, restano importanti percorsi storico critici da intraprendere in un prossimo futuro.
(Ritratto di Angelo Pasquale Ventura - Pittore Giuseppe Bonino)
La tela raffigura l’orafo genovese Angelo Pasquale Ventura, in abiti decisamente eleganti e in atto di mostrare con orgoglio una sontuosa croce pettorale gemmata evidentemente da lui stesso realizzata. Sul tavolo a sinistra sono appoggiati altri oggetti che alludono alla sua attività di gioielliere. Segnalato fin qui solo dal Borri, che si limita a definirlo “di autore ignoto e di non gran pregio”, il ritratto è stato rubato nel 2001 e, prima di allora, ampiamente ridiscusso in occasione della mostra del 19992 dove veniva attribuito al pittore Giuseppe Bonino.
Nella definizione vivace dei vari dettagli dell’abito, dalla cravatta di pizzo al grande polsino, alla sottomarsina trapunta a fili d’oro e al grande mantello rivestito di pelliccia, gli studiosi responsabili dell’esposizione monografica videro le tracce inconfondibili del linguaggio del Bonino, sempre attento a questi dettagli mondani.
Puntuali conferme al riferimento attributivo, allora, vennero offerte sia dalle campiture liquide e marezzate che descrivono la tenda e il mantello azzurro del Ventura sia dalla restituzione luminosa e delicata del volto, simile a quella che si ritrova in molti esemplari della serie Martignoni ampiamente discussa in occasione dell’esposizione.
Le uniche informazioni sul benefattore effigiato si ricavano ancora una volta dal Borri, dal quale si apprende che il Ventura, nato a Genova nel 1735 si trasferì a Varese nel 1765, aprendo una bottega di orafo e gioielliere in una casa dei fratelli Perabò. Sposatosi tre anni più tardi con la varesina Annunciata Fantoni, dalla quale non ebbe figli, accumulò in breve tempo una notevole ricchezza che gli consentì di acquisire molte proprietà nella castellanza di Biumo Superiore. Cancelliere della Veneranda Fabbrica di San Vittore dal 1771 al 1778, nel 1803 il Ventura nominò suo erede universale l’Ospedale de’ poveri di Varese con l’obbligo che il pio luogo destinasse parte del suo lascito alla riedificazione del Monte di Pietà, distrutto nel 1796.
Sulla base dell’età del personaggio che sembra dimostrare non più di cinquant’anni, il ritratto può essere datato intorno agli anni Ottanta del Settecento: una collocazione che sembra trovare conferma anche nei dati di costume forniti dall’abbigliamento del protagonista.
(Ritratto di Anna Novak e Angelo Magnani - Pittore Guido Bertini)
La grande tela è campita con decise e disinvolte pennellate che definiscono i volumi, le luci e le ombre del fondo erboso su cui si stagliano i coniugi Anna e Angelo Magnani, traendo un effetto decisamente spontaneo ed anticelebrativo. Il ritratto, inoltre, rivela un acuto interesse alla fisionomia dei protagonisti attraverso il quale vengono restituiti fedelmente i tratti psicologici salienti della coppia, coniugando verosimiglianza ed esigenze commemorative.
Come già sottolineato da Sergio Rebora per l’esecuzione del ritratto gratulatorio, il pittore Guido Bertini sembra essersi rifatto ad un prototipo fotografico, finora purtroppo non rintracciato.
Risulta ormai abbandonata la maniera sfumata del Bertini degli anni Venti, in favore di un realismo asciutto e vigoroso, all’interno del quale, attraverso graduali passaggi chiaroscurali, l’autore addolcisce i tratti degli anziani protagonisti ed in particolare della Novak.
Presumibilmente eseguito poco dopo la morte di quest’ultima (13 novembre 1929), il dipinto è ascrivibile al 1930 circa.
Angelo Magnani è personaggio di spicco tra gli imprenditori e benefattori varesini. Nipote di Angelo Poretti, nacque a Vedano Olona nel 1886. ereditata la conduzione della nota Birreria, per l’improvvisa scomparsa dello zio (avvenuta nel 1901) seppe condurre l’attività dell’azienda con profitto e si prodigò affinché la fabbrica venisse ampliata e modernizzata.
Prese iniziative anche in campo caritatevole, facendo erigere l’asilo di Bregazzana (dove è conservato un rilievo in bronzo, realizzato in sua memoria).
Morì il 19 maggio del 1924 all’ospedale di Riva del Garda.
Rimasta vedova del marito nel 1924 e priva di discendenza, Anna Novak, originaria della Boemia, si dedicò assiduamente alla filantropia e destinò, con lascito testamentario, due milioni di lire a favore della costituenda Casa di Riposo in Vedano Olona e altre cinquecentomila lire per una fondazione da intitolarsi ai nomi di Angelo Magnani e Anna Novak per i bambini di Vedano ed Induno Olona. Un terzo legato di lire cinquecentomila lire venne destinato a favore dell’Ospedale di Circolo di Varese.
Beneficiarono delle cospicue donazioni anche la Congregazione di Carità di Induno Olona, la Casa di Riposo di Varese, gli Orfanotrofi maschile e femminile di Varese, l’asilo infantile di Induno, la parrocchia e l’asilo infantile di Bregazzana, l’Università Popolare di Varese e molti altri istituti di assistenza a poveri, infermi e fanciulli.
(Ritratto di Antonietta Bassani Antivari - Scultore Giancarlo Franzosi)
Giancarlo Franzosi è noto quale autore attivo fin dagli anni Venti soprattutto nel campo della scultura commemorativa. Si è scelto di indicare come data di realizzazione dell'opera quella dell'apertura del nuovo padiglione di Accettazione Pronto Soccorso avvenuta l'8 maggio 1965, nei cui pressi venne collocata la statua di Antonietta Antivari Bassani. Il padiglione finanziato grazie alla liberalità dell'industriale Luigi Bassani veniva infatti dedicato alla memoria della madre defunta.
(Ritratto del notaio Antonio Bossi - Pittore Giuseppe Colombo)
Il notaio Antonio Bossi, accomodato nel suo elegante studio, si distingue per i lunghi baffi che nella foggia richiamano l'usanza austriaca.
Il pittore, all’esigenza di esprimere fedelmente l’identità fisionomica del personaggio, coniuga una raffigurazione molto zelante del fondo, descritto con tonalità opache e immerse nella penombra.
Caratterizzato da un tono estremamente controllato, riscontrabile soprattutto nella definizione dei riferimenti ambientali, l’inedito dipinto costituisce uno degli esempi più significativi per indagare la poco nota figura del pittore Giuseppe Colombo per il quale il Borri si premura di tramandarci soltanto la provenienza “da Canzo”.
Eseguito a ridosso della morte del nobile notaio Antonio Bossi, il dipinto in esame richiama da vicino, sia per le dimensioni che per l’impostazione iconografica e la qualità esecutiva, il ritratto di Carlo Filippetti (Inv. n. 22) firmato dal Colombo sempre per il nosocomio cittadino, a pochi anni di distanza. Come per quest’ultimo, così anche per il ritratto del notaio Bossi è riscontrabile lo scarto formale e compositivo rispetto all’effige commemorativa in onore del Cavaliere Baratelli, pure firmata dal Colombo per l’Ospedale di Varese. Mentre in quest’ultima opera, più matura e di ridotto formato, il sapiente chiaroscuro modella i volumi invece che delinearli, nell’opera presa in considerazione in queste righe, invece, tornano la precisione descrittiva degli oggetti d’interno e l’interpretazione calligrafica dei tratti del volto del benefattore.
Il Bagaini ricorda che nel 1887 Cherubina Sacconaghi, varesina e moglie del dottor Antonio Bossi di Azzate, rimasta vedova, donò cinquemila lire alla Congregazione di Carità di cui il consorte fu eletto presidente nel 1861.
La vedova esprimeva, inoltre, il desiderio che il ritratto donato del defunto marito – che dunque pervenne nella quadreria dell’Ospedale nel 1887 – fosse sempre compreso nell’annuale esposizione dei quadri dei benefattori del nosocomio.
Presso il cimitero di Giubiano, infine, è custodito un ritratto del Bossi scolpito da Donato Barcaglia che riproduce le similari fattezze del nobile notaio.
(Ritratto del canonico Antonio Buzzi - Pittore lombardo)
Il pessimo stato conservativo in cui versa il dipinto è completamente d’ostacolo ad una sua piena comprensione: la maldestra operazione di avvolgimento della tela con il recto rivolto all’interno, ha visto come conseguenza numerosi strappi localizzati soprattutto lungo il perimetro della tela e una diffusa caduta di estese campiture di colore.
A questo, si è aggiunta una precedente ed incauta operazione di restauro che ha manomesso l’equilibrio generale dell’opera, cancellando la figura del benefattore nella parte centrale che risulta in assoluto la zona più compromessa.
Nonostante l’attuale cattiva condizione conservativa, sorprende l’esplicito naturalismo del volto del benefattore, tanto nell’illuminazione quanto nella resa dell’incarnato tutto giocato su un lieve contrasto chiaroscurale. Oltre che sul volto, l’attenzione descrittiva del pittore si appunta sul dettaglio della pelliccia appesa al bracciolo dell’ampio scranno.
Il ritratto dell’Ospedale di Varese, caratterizzato da un corposo impasto cromatico e da una netta definizione dei contorni, pare inscriversi in un gusto non discosto dalla maniera, certo più aulica ed emblematica, di Daniele Crespi e forse non immune da suggestioni tratte dagli intensi ritratti del Moroni degli anni ’60 e ’70 del Cinquecento.
Riferita dal Borri al noto pittore Giovan Battista del Sole, l’immagine gratulatoria pare invece difficilmente conciliabile con lo stile di Del Sole, per la sua stesura di forte sostanza naturalistica e per la qualità densa e corposa della tessitura materica.
L’opera pare invece richiamarsi ai ritratti di Daniele Crespi, certo eseguiti con ben altre qualità esecutive e di stile e caratterizzati da una stesura soda e corposa, di intonazione rosea e di forte sostanza naturalistica, come avviene nel ritratto di Antonio Olgiati (1620 – 25 circa) o nel ritratto di gentiluomo, conservato all’Accademia Ligustica di Genova (1620-25 circa).
I sopraccitati ritratti, assieme a quello di gentiluomo in collezione privata (1620-25 circa) e pubblicato nel catalogo della mostra “Il ritratto in Lombardia”, rivelano dunque quanto sia profondo il debito del nostro ignoto autore nei confronti dei grandi maestri lombardi attivi nel XVII secolo nel campo della ritrattistica, dai quali desume a piene mani stilemi compositivi e caratteristiche esecutive.
L’opera in esame, infatti, visibilmente sensibile anche alle formule della produzione pittorica di Giuliano Pozzobonelli e seguaci, condivide con queste ultime uno spiccato gusto realistico e una maniera nitida che fa emergere i soggetti dal fondo scuro.
Tuttavia, dal momento che risulta ancora lacunosa la conoscenza circa la produzione ritrattistica di Giovan Battista Del Sole, largamente documentato in terra prealpina, solo un’ulteriore e più approfondita indagine comparativa potrà sperimentare la tenuta di una serie di dubbi.
Tornando alla biografia del benefattore, Antonio Buzzi, di benestante famiglia, attiva nella lavorazione nel commercio della seta, e figlio di Giuseppe e Margherita Masnago, nacque a Varese nel 1617. Ordinato sacerdote nel 1640, divenne canonico della Basilica di san Vittore in Varese.
Il 26 marzo 1673 sottoscriveva le proprie volontà testamentarie davanti al notaio Antonio Francesco Monti, a due protonotari e a cinque testimoni, nominando erede universale di tutti i suoi beni il nosocomio cittadino. Beneficò anche la Basilica di S. Vittore, le Suore di S. Giustina, i Padri Cappuccini e parecchi altri Istituti.
Nel testamento volle anche che, in tempi di carestia, parte del suo lascito fosse destinato a “comprare tanta mistura per farne moltissimi pani, da distribuire in più volte, a non più di una libbra per ciascuno, acciocché il soccorso tornasse in maggior sollievo a tutti li poveri, che concorreranno, anche forastieri, a prenderne per amor di Dio o al portone dello spedale, o alla porta della sua chiesa”.
Antonio Buzzi morì i Varese il 26 agosto 1675.
Qui di seguito si segnala la presenza di una copia, di mediocre fattura, del ritratto del Buzzi, limitata al volto del benefattore (Inv. n. 8, Varese, A.O. Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi).
(Ritratto di uomo con cartiglio (Antonio Caimi?) - Pittore lombardo)
Quasi nulle ad oggi risultano le notizie riguardanti sia l’identità dell’effigiato che quella dell’autore del ritratto.
Tra i più problematici – ed interessanti – dipinti della raccolta del nosocomio varesino, la tela, giunta a noi in mediocri condizioni, si distingue tuttavia per una schietta resa realistica, un dosato equilibrio chiaroscurale ed una buona coerenza compositiva, visibilmente sensibile alle formule della produzione pittorica della prima metà del XIX secolo.
Complesso risulta, a questo primo livello di indagine, lo studio dell’opera che, smontata dalla cornice, lascerebbe visibile l’iscrizione sul cartiglio e potrebbe rivelare sul retro qualche nota autografa o qualche indicazione cronologica.
Tuttavia, una raffinata tecnica esecutiva affiora con grande evidenza nella definizione dello sguardo penetrante del benefattore abbigliato in vesti borghesi, nella disinvolta posa anticelebrativa e nella densa condotta del volto.
Nonostante la penuria di dati storici in nostro possesso induca alla cautela, sembra possibile poter avanzare in questa sede qualche parallelo con l’opera pittorica di Pelagio Pelagi e, ancor di più, con la prima fase di Giuseppe Molteni. Di questo tornano nell’opera qui presa in esame alcuni elementi tipici come una certa inclinazione per composizioni nitide e calibrate dipendenti dalla produzione più aulica e celebre di Hayez.
Venendo ora a delineare un’approssimativa traccia biografica del benefattore, conviene notare la presenza nella quadreria dell’Ospedale Maggiore di Milano di un olio su tela e di un disegno, entrambi attribuiti alla mano di Giovanni Vismara. Le due opere ritraggono, nella medesima inquadratura, Antonio Caimi, morto il 21 settembre 1850.
Il benefattore immortalato nella quadreria milanese è individuato inoltre dal cartiglio che regge in mano: “Antonio Caimi sans façons d’anni 74/ morto il giorno 21 settembre 1850”. Sul biglietto apare l’iscrizione: “Al D. / Antonio Caimi / vicolo Figniani 1482 / Milano”.
Nelle schede del catalogo dell’ente milanese, inoltre, si precisa che: “il dipinto a mezzo busto del Caimi fu commissionato dall’Ente ospedaliero alla morte del benefattore che aveva voluto aggiungere al suo cognome il termine sans façons nella scritta per distinguersi dagli altri membri della sua famiglia. Il quadro andò perduto in un incendio e fu ripetuto dallo stesso autore nel 1885. (…) Per il primo ritratto l’autore ricevette lire 500. Il Vismara cognato del defunto, segue lo schema consueto della ritrattistica ospedaliera, suggerendo una sobria ambientazione alla figura del benefattore”.
Sebbene le indicazioni sopraccitate risultino in alcuni passaggi alquanto lacunose (non risulta chiaro ad esempio quale ritratto andò perduto nell’incendio e quando, se l’opera oggi presente nella quadreria milanese è la prima o la seconda versione del ritratto) è possibile ipotizzare, solo per brevi cenni, le coordinate cronologiche che riguardano il Caimi, forse figlio del ben più noto G. B. Caimi, medico chirurgo dell’Ospedal Maggiore di Milano, autore delle numerose aggiunte al volume di Istituzioni chirurgiche di G. B. Monteggia.
Le tre opere, vale a dire quella dell’ospedale di Varese e le due dell’ente milanese, sebbene molto distanti nella qualità esecutiva, rivelano sorprendenti affinità fisionomiche nel volto dell’effigiato. Inoltre, nel ritratto varesino, il cartiglio in basso, parzialmente nascosto dalla cornice, porta le sole parole leggibili “Al” e “Milano” alla fine.
Come si deduce dalla scarsità di dati in nostro possesso, che solo una futura e più approfondita indagine comparativa contribuirà forse a dirimere, l’unico dato accertato è la stretta vicinanza fisionomica del benefattore borghese che risulta di ben maggiore qualità stilistica nella tela varesina piuttosto che negli esemplari milanesi di fattura complessivamente mediocre e standardizzata.
(Ritratto di Antonio Rovera - Pittore Giuseppe Didone)
Costruita con una messa a fuoco nettissima, l’immagine gratulatoria in onore di Antonio Rovera riproduce le fattezze del benefattore in maniera fotografica.
Memore degli stilemi tipici del “realismo magico”, il ritratto in questione tuttavia non aderisce all’atmosfera ermetica o espressionista di certe opere di Casorati o Cagnaccio di San Pietro, ma si limita ad una cristallina resa della realtà.
Il ritratto, pur privo del documento di allogazione che permetterebbe meglio di inquadrare il problema della committenza, venne realizzato da Giuseppe Didone probabilmente in occasione della morte del benefattore.
L’autore, avviato agli studi artistici, frequentò l’Accademia di Brera dove ebbe quali maestri, fra gli altri, Camillo Rapetti e Ambrogio Alciati che sappiamo molto attivi nell’ambito della ritrattistica.
La mostra personale che si tenne a Milano nel 1931 dovette garantire all’artista ancor giovane una serie di commissioni di rilievo, tra cui spiccano quelle per due delle quadrerie di ritratti più note della Lombardia quali quelle dell’Ospedale Maggiore di Milano (si veda il ritratto di Carolina Barbara Invernizzi2, dove la traduzione pittorica del personaggio diventa quasi trascrizione fotografica) e del Pio Albergo Trivulzio (1990, cat. 67).
Il successo del ritratto di Antonio Rovera fu forse tra le cause della repentina chiamata di Giuseppe Didone da parte dell’Ospedale Sant’Anna di Como che, al principio degli anni Sessanta, aggiunse alla propria raccolta il ritratto di Carlo Bordoli (1963), il ritratto di Piero Fossati e il ritratto di Angelina Fasola ved. Fossati, risalenti al 1924.
Come risulta dalla nota pubblicata dal Bagaini, la prima donazione a favore del nosocomio varesino da parte dei fratelli Rosa e Antonio Rovera risale al 1929. Figli adottivi del munifico benefattore Cornelio Rovera, Rosa e Antonio si dedicarono a loro volta alla filantropia. Grazie al legato testamentario della prima, fu realizzata una sezione dialitica all’interno dell’Ospedale, intitolata alla memoria di Cornelio Rovera (Registro delle Delibere, n. 191 del 17 maggio 1969).
Grazie all’analisi proposta in queste pagine e al riferimento ad inediti documenti in possesso dell’Amministrazione dell’ente ospedaliero è possibile riannodare i legami dei componenti della famiglia a cominciare da Cornelio Rovera, ritratto dal Gariboldi.
(Ritratto di Armando e Laura Dansi - Pittore Giuseppe Montanari)
Opera matura del Montanari, il ritratto dei coniugi Armando e Laura Dansi è costruito secondo un’armonia cromatica sobria, ravvivata in più punti da veloci pennellate di tinte contrastanti. L’artista si concentra sulla volumetria delle figure, presentate al riguardante contro un paesaggio verdazzurro e secondo una poderosa scansione delle forme ed una modellazione semplificata.
La consolidata esperienza nel genere del ritratto da parte del Montanari è testimoniata da altre opere realizzate in territorio varesino come il ritratto della signora I. Brusa (1943) e il ritratto del prof. A. Brusa (1944). Nel primo dipinto, così come avviene nell’effige dei Dansi, il fondo non è serrato da un diaframma murario, ma trova un’ariosa apertura nel paesaggio che si spalanca oltre la balaustra.
Nell’opera esaminata in queste righe, le colline prealpine e il borgo in cima al Sacro Monte sullo sfondo, ribadiscono in certo senso l’affermazione delle istanze municipali e il legame, da parte degli effigiati, ai monumenti locali maggiormente noti.
L’unità compositiva del dipinto, conservato in buone condizioni, è ricreata dalla luce zenitale e dai colori stesi con un tratto rapido e spezzato.
Armando Dansi, nato nel 1888 ad Oleggio, seppe emergere, negli anni tra le due Guerre, nel campo degli apparecchi elettrici ed elettromagnetici applicati a diversi oggetti, quali telefoni, contatori, cicli e motocicli.
La stagione di maggior fortuna della ditta Cav. Armando Dansi fu quella a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, quando l’azienda arrivò a contare oltre quattrocento dipendenti. A quel periodo, oltre alla redditizia produzione di magneti e volani per motorini, risale anche l’affermazione internazionale della Dansi, grazie alla fornitura di parti meccaniche al settore corse della MV Agusta che segnava importanti successi sui circuiti di gara.
Armando Dansi e la moglie Laura Sculati furono protagonisti di uno dei lasciti più munifici della storia del nosocomio cittadino, contribuendo alla costruzione del padiglione pediatrico, intitolato alla memoria del fratello Emilio Dansi scomparso nel 1950. Ancora oggi il giovane è immortalato in un rilievo scultoreo firmato da Angelo Frattini e conservato nell’Ospedale di Varese.
(Ritratto di Augusta Testoni vedova Zamboni - Pittore Carlo Cocquio)
Rispondente alla maniera pittorica immediata e genuina del pittore locale Carlo Cocquio, il dipinto, giunto sino a noi in buono stato conservativo, celebra la benefattrice varesina Augusta Testoni con un linguaggio piano e semplice, frutto di un solido mestiere consolidato nella pratica artistica, privo di impennate di originalità o di iniziativa inventiva.
La vedova Zamboni, immortalata frontalmente e a figura intera nel rigoglioso giardino della sua villa in Giubiano, ostenta nella sinistra, il libro “L’Ospedale di Varese” di Luigi Borri, pubblicato all’inizio del XX secolo.
Tuttavia, conviene notare che la rigidità della posa frontale non contribuisce a trasmettere naturalezza e immediatezza nell’immagine, che risulta piuttosto bloccata e innaturale e giocata su una tavolozza di toni verdi e grigi.
Augusta Maria Testoni fu Emiliano, morì a Varese il 7 settembre 1949 e con testamento datato 11 agosto 1948 legava all’Ospedale di Circolo la sua villa in Varese, situata in via Gradisca n. 21.
Gli immobili, comprensivi del vasto parco della villa di 20.000 metri quadrati, vennero stimati del valore di quaranta milioni. L’usufrutto della villa veniva comunque destinato a Laura Miglioli, nipote della vedova Zamboni.
Tuttavia il 7 marzo 1951, l’Ospedale di Varese ritenne opportuno vendere la villa all’Istituto delle Suore Ausiliatrici del Purgatorio “allo scopo di realizzare le some occorrenti per le diverse necessità finanziarie dell’Ospedale”.
Il 1° luglio 1950 il Consiglio d’Amministrazione del nosocomio cittadino deliberava di affidare al Cocquio il ritratto della vedova “vista la nota in data 15 dicembre 1949 del Circolo degli Artisti di Varese che propone la terna di tre pittori per la esecuzione e cioè Prof. Federico Gariboldi; Prof. Giuseppe Montanari e Prof. Carlo Cocquio; ritenuto doveroso affidare il lavoro al Prof. Carlo Cocquio, avendo gli altri già effettuato altri lavori del genere per questo Ospedale”.
Il criterio di scelta dell’esecutore dei ritratti dei benefattori, in questo decennio così come nel successivo, era dunque quello di “una certa rotazione degli incarichi, non solo per un criterio di giustizia distributiva, ma anche per avere nella più importante raccolta la espressione multiforme degli artisti della regione”, senza dimenticare di “tener conto dell’eventuale desiderio di eredi o famigliari dei benefattori”.
Sono questi gli anni in cui il Cocquio, oltre a partecipare attivamente assieme a Lia Ambrosoli, Federico Gariboldi, Alessandro Pandolfi, Giuseppe Talamoni e altri, all’attività del “Circolo degli artisti di Varese”, accoglie numerose commissioni da parte dell’Ente Ospedaliero per ritratti di benefattori o piccole opere destinate alla chiesa dell’Ospedale intitolata a San Giovanni (per i ritratti si rimanda alle schede relative).
La spesa per l’immagine gratulatoria della vedova Zamboni venne saldata dall’Amministrazione Ospedaliera il 4 luglio 1950 per 174.070 lire.
(Ritratto del notaio Benedetto Alfieri - Pittore lombardo)
Il dipinto, giunto sino a noi in discreto stato conservativo, si presenta perfettamente in linea con i ritratti coevi realizzati per la galleria di benefattori dell’Ospedal Maggiore di Milano.
Il ritratto, da collocare presumibilmente entro la prima metà del XVII secolo, è stato sottoposto ad un incauto intervento di restauro che ne ha indubbiamente obliterato i caratteri originali.
Sembrano, tuttavia, preservati la discreta qualità della resa fisionomica del benefattore e alcuni dettagli che paiono conservare parte dell’originaria freschezza, come le mani e il volto dall’espressione intensa.
Quanto al profilo biografico dell’effigiato, tenendo fede ai pochi dati in nostro possesso, il ritratto fu verosimilmente eseguito poco tempo dopo la morte del notaio Benedetto Alfieri.
Ad oggi, purtroppo risulta molto ardua la ricostruzione storica, dato che il nome di Benedetto Alfieri non risulta menzionato nelle fonti antiche o nei più recenti studi monografici riguardanti la storia dell’ospedale di Varese. Tra i benefattori, infatti, sono menzionati solo “Gian Fedele Alfieri, avvocato e pretore”, nato nel 1731 e testatore a favore dell’ospedale nel 1807, e il più noto “Giuseppe Alfieri” per il quale si rimanda alla relativa scheda.
(Ritratto di Carletto Redaelli - Pittore Giuseppe Montanari)
Il ritratto firmato dal Montanari sembra verosimilmente tratto da una fotografia, ad oggi purtroppo non rinvenuta. Nell’immortalare il giovane Redaelli, figlio di Luigi (per il quale si rimanda alla tela eseguita dal Gariboldi) il pittore sceglie di ambientarlo in trincea per ricordare la sua morte prematura sul campo di battaglia.
Il dipinto qui preso in considerazione rimanda, nella luminosità diffusa e nelle tinte magre e chiare, all’attività di freschista nella quale il Montanari fu attivo soprattutto in Varese.
La saldezza dei netti contorni della figura è tipica dei dipinti del Montanari realizzati negli anni Venti; tuttavia la tavolozza dei colori già è virata verso combinazioni schiarite e luminose, maggiormente disinvolte e bagnate da una luce zenitale che toccheranno l’apice nel ritratto dei coniugi Dansi.
Anche grazie alla nota biografica riguardante il giovane soldato che ricaviamo dal Bagaini che lo dice figlio di Luigi Redaelli, possiamo ipotizzare l’ingresso della tela nel nosocomio cittadino nei primi anni Trenta.
(Ritratto di Carlo Filippetti - Pittore Giuseppe Colombo)
Nel dipinto giunto a noi in discreto stato conservativo, il giovane Carlo Filippetti è effigiato a figura intera, in una posa un po’ astratta e bloccata, al centro di un salotto borghese.
Rispetto alle successive composizioni documentate, collocabili cronologicamente ai primi del Novecento, l’autore Giuseppe Colombo sembra ancorato, a questa data, ad un’interpretazione calligrafica, talvolta pedante, che indugia con meticolosità sulla descrizione dei particolari ambientali e che sfiora accentuazioni quasi oleografiche.
Sarà forse d’ausilio confrontare la produzione ritrattistica del Colombo, anche in vista di una futura e completa disamina del corpus artistico, con i dipinti coevi del più noto e dotato Carlo Picozzi (Varese 1797 – Milano 1883) attivo per numerose commissioni da parte dell’Amministrazione dei Luoghi Pii elemosinieri che testimoniano la sua particolare fortuna goduta presso la committenza ambrosiana.
Benché il Picozzi raggiunga esiti ben più convincenti nell’interpretazione artistica degli effigiati, il Colombo pare richiamarne certe caratteristiche formali, soprattutto nell’impaginazione e nella composizione restituite con il consueto scrupolo.
Quanto al pittore Giuseppe Colombo, presso l’Archivio di Stato di Varese è stato rinvenuto il documento inedito di allogazione del ritratto, firmato dal nostro autore in data 24 gennaio 1886 e indirizzato alla Congregazione di Carità di Varese. Per il ritratto ad olio del Filippetti, Giuseppe Colombo ricevette in saldo lire 600.
Stranamente non menzionato nel volume del Borri, il varesino Carlo Filippetti, figlio di uno dei più noti commercianti di pellami, non poté proseguire il commercio del padre Luigi a causa del cagionevole stato di salute. Il 5 luglio 1884 scrisse di suo pugno il testamento, istituendo erede del suo patrimonio il Ricovero di Mendicità, amministrato dalla Congregazione di Carità e lasciando parecchi legati tra i quali uno di trentamila lire a favore dell’Asilo Infantile ed uno di mille lire per ciascuna delle due Società Operaie di Varese.
Morì, così come attesta anche l’iscrizione commemorativa eseguita a pennello sul dipinto, il 10 luglio 1884.
(Ritratto di Carlo Giuseppe Veratti - Pittore Giuseppe Bonino)
Ricondotto nel catalogo di Giuseppe Bonino in occasione della mostra del 1999, il ritratto di Carlo Giuseppe Veratti si segnala per una tessitura pittorica liquida e impreziosita da ricercati cangiantismi che costituiscono la cifra peculiare dei dipinti dell’autore che sappiamo molto attivo per le più notabili famiglie cittadine nonché per l’Ospedale di Circolo.
Conferme al riferimento attributivo sono offerte da alcuni confronti con altre opere del Bonino oggi in collezioni private (si confronti ad esempio il ritratto di Carlo Martignoni, il più antico della serie eseguita per la nota famiglia varesina) e con celebri tele dipinte dal Magatti, dal quale il nostro autore, suo allievo, desume diligentemente stilemi compositivi e pittorici, pur in anni così attardati.
Comune con le piccole tele eseguite per i Martignoni è pure la presentazione della figura con il braccio e la mano leggermente sollevati in una gestualità eloquente.
L’ovale qui discusso ritrae Carlo Giuseppe Veratti (l’identità dell’effigiato è rivelata dall’iscrizione leggibile nella zona in alto a sinistra, apposta poco dopo la scomparsa del benefattore), personalità di spicco tra i benefattori in terra varesina.
Originario della castellanza di Biumo Inferiore e figlio di Carlo e di Maria Anna Calini, il Veratti venne ordinato sacerdote nel 1797 rivestendo inizialmente l’incarico di parroco di Malvaglia, in Canton Ticino.
Rientrato a Varese, venne nominato nel 1800 prevosto della basilica cittadina di San Vittore e di lì a un anno si trasferì a Milano, divenendo prete coadiutore della basilica di Sant’Eustorgio.
Morto nel capoluogo lombardo nel 1838, il Veratti lasciò tutti i suoi beni all’Ospedale dei poveri di Varese, disponendo che buona parte della sua eredità fosse destinata alla fondazione di una casa Pia d’industria finalizzata ad accogliere i derelitti della città.
Il lascito consentì la costruzione, nel 1839, dell’Opera pia Veratti e rappresentò la fondamentale premessa alla fondazione della Casa di riposo Molina, tuttora esistente in Varese.
Certamente successiva al 1797, anno in cui il Veratti vestì l’abito sacerdotale, la tela venne realizzata tra il 1799 e il 1801, quando Carlo Giuseppe, stabilmente residente in Varese, aveva circa cinquant’anni, età alla quale ben si adattano le fattezze del volto.
(Ritratto di don Carlo Luvini)
(Ritratto di Carlo Rainoldi - Pittore lombardo)
(Ritratto di Carlo Sonzini - Pittore Romeo Pellegata)
Realizzata due anni dopo la tragica scomparsa del giovane industriale varesino Carlo Sonzini1, l’immagine gratulatoria lo ritrae in un contesto domestico ed atteggiato in una posa informale. La pennellata corsiva e disinvolta del Pellegata restituisce un’immagine fragrante e ben individuata sul piano della fisionomia e della psicologia, caratteri apprezzabili sebbene il dipinto necessiti di un’accurata pulitura e rimozione della patina superficiale di sporco.
Tenuto conto della formulazione compositiva e cromatica dell’opera, è possibile istituire un confronto con il ritratto del barone Leonino – pure all’interno della collezione ospedaliera varesina – eseguito dal Pellegata a breve distanza di anni. Come in quest’ultima opera, così nel ritratto del Sonzini, il benefattore, effigiato fino all’altezza della cintola, emerge incontrastato sullo sfondo di un interno reso con fluidità di tratto.
Il dipinto varesino, infine, richiama certi esiti compositivi e stilistici di autori contemporanei al Pellegata, attivi presso la Quadreria dell’Ospedale Maggiore di Milano quali Romano Valori e Paolo Sala.
Si conferma, dunque, anche in quest’esemplare, la scelta del Pellegata di tenere il dipinto lontano dalla freddezza di un ritratto ufficiale e di cogliere il proprio modello quasi come in un’istantanea fotografica.
Industriale serico e commerciante, Carlo Sonzini fece parte del consiglio comunale di Varese ed entrò nella giunta municipale durante l’amministrazione Della Chiesa. Prestò servizio da ufficiale durante la mobilitazione dell’esercito e morì il 15 giugno 1922 per un incidente automobilistico. In questa occasione la madre Enrichetta Galli, vedova Sonzini e la sorella Gina Curti Sonzini vollero onorare la memoria di Carlo versando alla Congregazione di Carità la somma di venticiquemila lire perché venisse istituita nell’Ospedale una sala di fototerapia da intitolarsi al nome di Carlo.
(Ritratto di Carlo Zanzi - Pittore Achille Jemoli)
L’immagine gratulatoria eseguita in memoria di Carlo Zanzi risulta in mediocre stato conservativo e d’esecuzione decisamente convenzionale e stereotipata, soprattutto a causa della non riuscita indagine fisionomica del filantropo.
Il dipinto, infatti, mostra un’impostazione acerba e un po’ schematica del personaggio che, raffigurato secondo un rigido profilo e in un ambiente poco illuminato, si staglia contro il fondo con tratti marcati che ne accentuano la bidimensionalità.
Bisogna tuttavia ribadire che tale impressione di rigidità è certamente accentuata dal cattivo stato conservativo della tela, percorsa da cadute di colore e prepotentemente adombrata da uno strato di sporco.
Venendo a tracciare il profilo biografico del munifico personaggio, il Bagaini ricorda Carlo Zanzi quale meritorio concittadino, da tempo stabilitosi a Milano. Egli morì il 22 aprile 1920 dopo aver lasciato un legato di lire cinquemila in favore dell'Ospedale Civico.
(Ritratto di Carlotta Papetta vedova Carcano - Pittore Guido Bertini)
La protagonista, testante a favore di numerosi istituti di beneficenza di Milano e dell’asilo infantile di Gorla Maggiore, viene ritratta da Guido Bertini a figura intera, in un formato di tela stretto e lungo. Sono presenti, come sempre accade nelle opere del Bertini comprese entro gli anni Venti, una spiccata aderenza al vero declinata in una maniera morbida e sfumata ed un’indagine approfondita del carattere psicologico dell'effigiata, in questo caso, volta di tre quarti, recante un paio di occhiali fra le mani e vestita con un elegante abito nero.
Più abbreviata, quasi sbrigativa, appare la stesura di alcuni dettagli degli oggetti sullo sfondo dell’elegante salotto borghese, arredato con mobilio di pregio e dipinti appesi entro preziose cornici.
L’opera, giunta sino a noi in discreto stato conservativo, si dimostra capace di rispondere pienamente alle esigenze commemorative dei benefattori ed è risolta con una pennellata di tocco che richiama la tecnica esecutiva di alcuni grandi maestri quali Eleuterio Pagliano, Riccardo Galli e Antonio Pasinetti, pure molto presenti nel campo della ritrattistica.
Avvicinabili all’opera in questione sono gli altri ritratti del nosocomio varesino, eseguiti dal Bertini nei primi due decenni del Novecento, ed in particolare il Ritratto di Corinna Guaraldi vedova Beretta.
Vedova di Eligio Carcano, Carlotta Papetta morì a Milano l’8 novembre 1916 e nelle sue disposizioni testamentarie destinò cinquantamila lire all’Ospedale di Varese perché fosse istituito un letto intestato alla memoria del marito.
(Ritratto Cavalier Giuseppe Baratelli - Pittore Giuseppe Colombo)
Il ritratto di Giuseppe Baratelli, tra i più noti varesini benemeriti, è l’opera più matura di Giuseppe Colombo, artista ancora poco noto ma presente con altri due dipinti nella raccolta del nosocomio cittadino. Convincente nella restituzione delle qualità fisionomiche dell’effigiato, il dipinto in esame è caratterizzato da delicate sfumature cromatiche, da un’interpretazione pittorica non banale e da una riuscita resa atmosferica che conferisce all’immagine un tono aulico e realistico insieme.
Dell’autore della tela, per il quale una futura e più approfondita ricerca riporterà alla luce maggiori e più precisi dettagli, vengono proposte in questa sede le coordinate biografiche e l’ambito artistico nel quale presumibilmente operò, destreggiandosi tra soggetti storici, di genere e – soprattutto – ritratti. Sappiamo dal Borri che il Colombo era originario di Canzo e fu domiciliato a Varese, in Viale Aguggiari n. 9. Un ritratto da lui firmato, inoltre, perpetua la memoria di Francesco Daverio, noto garibaldino di Varese.
Tornando al nostro dipinto, conviene sottolineare che l’autore scelse di ritrarre il generoso filantropo varesino fino all’altezza del busto, adottando uno schema compositivo più asciutto e ammorbidito rispetto agli altri suoi due dipinti presenti all’Ospedale di Varese, insistendo nella precisione del disegno e nella stesura del colore dell’incarnato.
Il dipinto, conservato in buono stato, non risulta immune dall’esempio di Mauro Conconi (Milano 1815 – 1860) attivo nell’ambito della ritrattistica e legato alla più prestigiosa committenza lombarda.
Torna utile, a tal proposito, il riferimento al Ritratto di Giovanni Battista Puricelli Guerra firmato dal Conconi. Pur senza eguagliarne la scioltezza di conduzione e il convincente naturalismo, la tela del Colombo pare richiamarne, nello studiato chiaroscuro che informa, grazie ad una luce soffusa, il volto del cavalier Baratelli, il calibrato accademismo.
Un’effigie a figura intera, firmata da Guido Bertini e conservata presso i Musei Civici di Varese, ripropone i medesimi tratti fisionomici del Baratelli, morto il 24 dicembre 1924 e sepolto presso il cimitero di Giubiano, in Varese.
Possidente di una villa in via Cavour a Varese, è ricordato principalmente per aver istituito la biblioteca civica di Varese, dotandola di numerose opere librarie.
A ventiquattro anni, dopo la morte dei genitori, lasciò la sua città per cercar fortuna in America e sbarcò in Argentina, per entrare in un laboratorio litografico, settore che a quel tempo andava rapidamente sviluppandosi. Dopo undici anni di permanenza nel Nuovo Continente, tornò nel 1894 a Varese al cui comune donò la sua cospicua raccolta di libri, aggiungendovi centomila lire a titolo di donazione per l’istituenda biblioteca civica. Con testamento olografo sottoscritto il 26 gennaio 1923 nominava l’Ospedale Civico di Varese erede universale del suo cospicuo patrimonio destinandone i redditi all’assistenza dei tubercolotici e all’assistenza dei cronici poveri della città di Varese.
(Ritratto del sacerdote Claudio Borri - Pittore Giovanni Fangazio)
La figura del sacerdote varesino è colta al tavolo dello studio, sul quale è disposta, accanto a numerosi volumi, anche una sfera armillare a ricordo degli interessi scientifici, oltre che umanistici, del filantropo. Il ritratto è ricordato da Luigi Borri che, oltre a tracciare un breve profilo biografico del benefattore, rivela che il dipinto venne realizzato “per lire italiane seicentocinquanta dal pittore Giovanni Fangazio originario di Mezzana Mortigliengo, in provincia di Novara”.
Sebbene ad oggi siano scarsissime le notizie biografiche riguardanti il Fangazio, stando a quanto segnalano le fonti, a cominciare dai cataloghi delle esposizioni annuali di Belle Arti indette nel Palazzo di Brera, sembra che egli si sia prevalentemente concentrato nell’ambito della ritrattistica, interpretando con trattenuto rigore quella “correttezza” molto apprezzata dalla critica tradizionale.
Sono due le opere attribuite al Fangazio appartenenti al nosocomio di Varese che, forse a seguito di future ed ulteriori indagini storiche, potranno contribuire a sistematizzare il corpus artistico di questo autore.
Sia il ritratto del sacerdote Claudio Borri che l’immagine in memoria di Suor Virginia Staurenghi (Inv. n. 19) rivelano, inoltre, significative analogie di taglio compositivo e un evidente legame dato dalla salda impostazione accademica. La stesura minuziosa e levigata della tela che immortala il noto religioso varesino, unita ad una impostazione estremamente curata e ad una restituzione analitica dello studio domestico, accomunano, limitatamente a certe caratteristiche, l’opera in questione con ritratti di Eliseo Sala (1813 - 1879) e Raffaele Casnedi (1822 – 1892).
Fra le figure di spicco della Varese di fine Ottocento, Claudio Borri, erudito cultore di materie letterarie, nacque a Varese il 29 novembre 1817 e venne ordinato sacerdote nel 1842. Fu docente di grammatica nel Ginnasio della città e nel 1848 divenne uno dei segretari del Comitato di Pubblica Sicurezza varesino.
Nel 1852 lasciava Varese per stabilirsi a Milano dove insegnò nell’Istituto di educazione Borselli.
Morì a Milano presso l'ospedale Fatebenefratelli il 26 Luglio 1879, lasciando erede l’ospedale di Varese del suo patrimonio valutato in Lire 17mila con l’obbligo di passare una pensione vitalizia di lire 600 annue alla sorella Massimilla e di lire 180 annue all’altra sorella Annetta, un ufficio funebre anniversario di Lire 20 ed una dote da Lire 50 ad una giovane sposa povera.
(Ritratto di Corinna Guaraldi vedova Beretta - Pittore Guido Bertini)
L’immagine gratulatoria ritrae l’anziana donna seduta in un elegante salotto borghese ed abbigliata con sobri ed eleganti abiti e gioielli.
Contro la resa sapientemente offuscata dei dettagli lasciati sul fondo, acquista rilievo la severa presenza della vedova Corinna Guaraldi Beretta, intonata su una raffinata condotta pittorica capace di bandire ogni inutile orpello, senza rinunciare al calore dell’ambientazione domestica. La pennellata di tocco del pittore Giuseppe Bertini contribuisce a stemperare l’espressione austera del personaggio restituendo, attraverso una calibrata introspezione, tutta l’intensità dello sguardo e del carattere.
Da sottolineare anche certi eleganti effetti di cangiantismo nella veste della donna, apprezzabili sebbene il dipinto necessiti di un’accurata pulitura e rimozione della patina superficiale di sporco.
Quanto ai dati tecnici, conviene sottolineare il naturalismo e la fragranza della stesura pittorica che avvicinano l’opera, qui presa in esame, alla pennellata fluida dell’Alciati e del Tallone e ad alcuni ritratti della Quadreria dell’Ospedale Maggiore di Milano, come il ritratto di Maria Maroni Bordoni di Arturo Ferrari (dell’inizio del secolo) o ancor di più il ritratto di Maria Ciapparelli Talamona di Vittorio Tironi2 (attribuito al primo decennio del Novecento).
Vedova di Francesco Beretta, Corinna Guaraldi, nacque a Varese ma risiedette a Milano e il 20 ottobre 1910 testò a beneficio dell’Ospedale, destinando la somma di lire cinquantamila3. Lo spoglio documentario rivela che fu la stessa vedova Guaraldi Beretta, in occasione della sua donazione, a chiedere di essere ricordata tramite un ritratto, che fu allogato nel 1917 a Guido Bertini.
(Ritratto di Cornelio Rovera - Pittore Federico Gariboldi)
Il dipinto, in cattive condizioni conservative, mostra un’impostazione acerba e un po’ rigida del soggetto: il personaggio, raffigurato in piedi, in un ambiente poco illuminato, è segnato con tratti marcati che ne accentuano la bidimensionalità.
Probabilmente esemplato su un’istantanea fotografica, il volto di Cornelio Rovera mostra forti somiglianze con i tratti fisionomici rilevabili in un rilievo bronzeo ancora conservato nella frazione di Oltrona al Lago, luogo nativo del munifico filantropo.
Se la fusione metallica (databile a ridosso degli anni Venti, vista anche la presenza di elementi naturalistici e caratteri calligrafici in rilievo, riconducibili ai modi del Liberty) restituisce un convincente approfondimento anatomico e psicologico del volto del Rovera, la tela sembra meno capace di indagare con minuzia e verosimiglianza lo sguardo del noto filantropo.
Bisogna tuttavia ribadire che tale impressione di rigidità è certamente accentuata dal cattivo stato conservativo della tela che riprodotta nel testo del Bagaini (1930) non risulta così adombrata nella costruzione luministica e nella resa del personaggio.
Cornelio Rovera emigrò in America ancora in giovane età e tornato in patria si dedicò alla filantropia, elargendo una cospicua donazione a favore dell’Ospedale civico di Varese (per il quale dispose un legato di centomila lire). Morì il 12 novembre 1919 e con testamento olografo 1° marzo 1918, messo agli atti con verbale del 14 novembre 1919, nominava eredi i figli adottivi Antonio e Rosa, col vincolo di usufrutto parziale vitalizio a favore della moglie Rachele Lucca (1854-1929).
Il suo esempio è forse uno dei più eloquenti casi in cui la storia della liberalità ospedaliera è stata incarnata da intere famiglie che, con munifici lasciti, hanno perpetuato nei decenni il ricordo del proprio nome (a tal proposito, si vedano le schede Ritratto di Rachele Rovera di Guido Tallone e Ritratto di Antonio Rovera di Giuseppe Didone).
Il nome di Cornelio è legato inscindibilmente, assieme a quello del fratello Luigi, all’istituzione dell’asilo infantile in Oltrona al Lago, loro paese d’origine.
In presenza del notaio Ramponi di Varese, i Rovera convennero sull’intitolazione dell’istituto per minori, da dedicarsi alla madre Santina Gattoni (1 novembre 1819 – 28 settembre 1895).
Ancora oggi, tramanda la memoria dei coniugi Santina e Giovan Battista Rovera, la cappella di famiglia edificata dai figli (Santo (1851-1900) e i già citati Cornelio e Luigi) nel cimitero di Oltrona.
Tornando all’asilo infantile, la prima pietra venne solennemente posta il 9 settembre 1906 dai due giovani, e all’epoca fidanzati, Rosa Rovera, figlia adottiva di Cornelio, e Carlo Arconati.
Il 10 maggio 1908 venne sottoscritto lo Statuto dell’asilo che sarebbe stato retto da un Consiglio Amministrativo composto da tre membri.
La famiglia Rovera, nei decenni a venire, si sarebbe distinta per numerose donazioni a favore di enti assistenziali e di cura.
Per concludere, pur ribadendo l’urgente necessità di un intervento di consolidamento e pulitura della superficie pittorica della tela, che ne potrebbe ripristinare l’originario contrasto luministico e cromatico, conviene ribadire la sorda gamma cromatica, una certa durezza di tratto e d’esecuzione da parte del Gariboldi, ricorrenze formali, queste ultime, che tornano in altre opere pure collocabili al termine del secondo decennio del XX secolo.
(Ritratto del ragioniere Corrado Macchi - Pittore Giuseppe Montanari)
Il ragionier Corrado Macchi, seduto alla sua scrivania d’ufficio, è riconoscibile, nella sua qualifica professionale, dall’iscrizione “libro del debito pubblico italiano”.
L’autore, nell’eseguire l’effige gratulatoria, aderisce alla tradizionale iconografia allusiva all’attività lavorativa del benefattore, iconografia molto diffusa nella sezione contemporanea della Quadreria dell’Ospedale Maggiore di Milano, contrariamente a quanto avviene nel nosocomio varesino. In quest’ultimo, infatti, sono scarse le immagini che ostentano l’impegno professionale degli effigiati che, non di rado, preferiscono farsi immortalare sullo sfondo delle colline e dei laghi prealpini o all’interno di ricchi salotti borghesi.
Il ritratto, firmato dal Montanari ed eseguito l’anno dopo la morte dei Corrado Macchi, sembra registrare, contro un’affollata libreria, una “tranche de vie” tratta dall’universo impiegatizio del protagonista.
Il mediocre stato conservativo non consente un giudizio definitivo sul dipinto, scurito in superficie da una densa e spessa patina di sporco. Tuttavia, conviene notare come un sapiente disegno e un giocato chiaroscuro modellano con morbidezza il volto e le mani del munifico filantropo.
La saldezza dei netti contorni della figura è tipica dei dipinti del Montanari realizzati negli anni Venti, così come si può ben vedere nel robusto ritratto di Fruttivendola (1926) e nel ritratto Padre e figlia (1926).
Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro e grande ufficiale della Corona d’Italia, Corrado Macchi era fratello del generoso benefattore Silvio Macchi. Nell’età giovanile svolse un considerevole ruolo nelle iniziative benefiche cittadine, in special modo verso il Ricovero di Mendicità.
Avendo vinto il concorso di ragioniere presso l’Intendenza di Finanza di Como, percorse la carriera finanziaria-amministrativa, giungendo alla mansione di Capo Divisione al Ministero del Tesoro e di Ispettore Generale di ragioneria.
Membro attivo di numerosi consessi superiori ministeriali, ebbe importanti incarichi anche all’estero. Nell’ambito della sua professione va ricordato il lavoro compiuto a Berlino per l’applicazione dell’affidavit, la compilazione della Storia del Debito Pubblico, le ispezioni compiute agli istituti di emissione e l’organizzazione del Monte Pensione dei Maestri. Abbandonato il lavoro a causa di cattive condizioni di salute, si ritirò nella casa di Bobbiate di proprietà del fratello.
Morì l’11 febbraio 1924 e con lascito testamentario istituì erede universale la Casa di Riposo.
(Ritratto di Emilia Ermolli vedova Rainoldi - Pittore Rastellini)
Esemplate su modelli fotografici, che sono serviti, con ogni probabilità, anche per i rilievi scultorei sulla tomba di famiglia Rainoldi del cimitero di Giubiano, le due opere, dalle medesime misure, rivelano una morbidezza di tocco particolarmente felice, una maniera sobria, compassata, tale da restituire due volti accostanti, si potrebbe dire quasi familiari.
Memori della lezione di Cesare Tallone e di Ambrogio Alciati, le due tele dei coniugi Rainoldi paiono riconducibili alla stessa mano e ideate come due effigi affrontate.
Tenendo fede ai pochi dati in nostro possesso i due ritratti furono verosimilmente eseguite alla morte della vedova Rainoldi, giungendo solo allora nella raccolta dell’Ospedale di Varese.
Carlo Rainoldi nacque a Varese il 29 novembre del 1839 e a vent’anni si arruolò nel primo reggimento dei Cacciatori delle Alpi, prendendo parte a molte imprese d’armi e partecipando alla campagna varesina del 1859.
Ricoprì in vita diverse cariche pubbliche e fu per numerosi mandati consigliere comunale, assessore, vice sindaco e consigliere della Congregazione di Carità.
A lui si devono, inoltre, le grandi esposizioni fieristiche che si tennero tra gli anni 1871 e 1901.
Nel testamento olografo, stilato in data 19 giugno 1895, legava duemila lire a favore della Congregazione di Carità e duemila a favore del Ricovero di Mendicità. Disponeva inoltre, che dopo la morte della consorte ed erede, Emilia Ermolli, la proprietà stabile del testatore passasse all’Ospedale e alla Congregazione di Carità. Morì il 2 dicembre 1910.
(Ritratto di Emilia Rizzi vedova Daccò - Pittore Carlo Balestrini)
Esemplato su un ritratto fotografico, il dipinto firmato dal Balestrini ritrae la benefattrice all’interno di un elegante salotto. La stesura pittorica non è esente da espliciti richiami alla tecnica divisionista soprattutto nel ricco abito dell’anziana donna, ravvivato da rapidi e sparsi tocchi cangianti, apprezzabili sebbene l’intonazione cromatica generale risulti tenuta su toni ribassati.
Conservatasi in discreto stato, la tela, limitatamente agli aspetti tecnici ed esecutivi, richiama opere degli anni Novanta del secolo precedente, firmate da Angelo Morbelli ed Attilio Pusterla.
A tal proposito, risulta suggestivo il richiamo alla resa atmosferica nel dipinto del Pusterla In vettura, costruito con dense pennellate che scompongono i contorni, come pure accade nell’opera qui presa in considerazione.
Il Balestrini, aggiornato sulle conquiste dei colleghi di Brera, riesce ad imprimere alla figura un discreto senso di movimento e un’approfondita indagine psicologica che restituiscono al riguardante una tra le più memorabili effigi dell’Ospedale varesino, lontana dai compassati ritratti celebrativi che reiterano schemi innaturali.
Figlia di Giovanni e di Angelina Canevàri, Emilia Rizzi nacque a Cervignano, nei pressi di Lodi il 9 febbraio 1849. Ventisei anni dopo si unì in matrimonio con Emilio Daccò da Vermàte. Rimasta vedova (il 26 marzo 1883) e non avendo eredi, elesse Varese come luogo di villeggiatura ed acquistò una villa nella castellanza di Casbeno. Il 2 gennaio 1906 sottoscrisse il testamento nel quale citava suo erede il nipote, Angelo Daccò di Guglielmo, milanese.
Oltre a una donazione di cinquecento lire a favore dei poveri di Casbeno, Emilia Rizzi stabiliva di lasciare alla Congregazione di Carità di Varese trentacinquemila lire da erogare ad una fondazione intitolata a suo nome. Morì il 25 maggio 1907 ed fu sepolta al Cimitero Monumentale di Milano.
(Ritratto di Emilio Dansi - Scultore A. Frattini)
Il padiglione pediatrico all'interno del quale la scultura si trova venne fatto erigere in memoria del figlio prematuramente scomparso nel 1950 da Armando Dansi e Laura Sculati. Il progetto dell'edificio era stato approvato nel novembre 1952.
(Ritratto dei coniugi Emma Zonda e Silvio Macchi - Pittore Giuseppe Amisani)
Nel ritratto dei coniugi Macchi-Zonda le figure dei benefattori, seduti con naturalezza in un ampio giardino, si fondono con l’atmosfera luminosa del paesaggio romantico e lussureggiante, appena abbozzato, così da sottolineare il distacco del pittore da una ritrattistica di tipo fotografico in favore di una sciolta condotta squisitamente pittorica.
L’autore ripete in quest’opera lo schema più volte felicemente realizzato per la Quadreria dell’Ospedale Maggiore di Milano con le figure dei testatori ambientate all’aperto.
A tal riguardo, il dipinto della raccolta varesina appartiene allo stesso torno di anni del ritratto di Davide Lanfranconi firmato dall’Amisani nel 1941 e del ritratto di Emilio Pagani del 1935 (Quadreria dell’Ospedale di Milano) e con questi condivide numerosi caratteri stilistici.
Le figure dei coniugi Macchi-Zonda, infatti, unite in un atteggiamento naturale ed affettuoso e con lo sguardo rivolto allo spettatore, sono investite da una luce zenitale resa con liquide pennellate molto magre di colore.
Erede dei cosiddetti “post-romantici” milanesi (Tranquillo Cremona, Mosè Bianchi, Emilio Gola) soprattutto per quel che concerne la tecnica a larghe pennellate - che in quest’opera diventano vere e proprie colature di colore –, Giuseppe Amisani sviluppa, a partire dagli anni Venti, una ritrattistica in cui la macchia prende il sopravvento sul contorno, talvolta lasciando in secondo piano la somiglianza fisionomia del personaggio.
Tale espediente permette ad Amisani di attenuare la rigidità e la severità tipiche del “ritratto post-mortem”, lasciando il posto ad un sapiente gioco cromatico, condotto con forti contrasti fra tonalità spente e brillanti.
In questo caso, addirittura, il prevalere del colore sul disegno produce un effetto fortemente pittorico vicino al gusto decorativo orientaleggiante in voga negli anni Venti.
Il dipinto che ritrae i munifici coniugi venne commissionato dall’Ospedale di Circolo nel 1935 per celebrare i benefattori che, grazie al generoso lascito, permisero la costruzione del padiglione per tubercolotici.
Silvio Macchi, nato nel 1858 da Giovanni, una volta ultimati gli studi di ragioneria, intraprese la carriera di funzionario pubblico, ricoprendo la carica di segretario in diversi comuni del mandamento di Varese e fissando la propria residenza a Varese, dove ricoperse la carica di assessore per le finanze e quella di consigliere provinciale.
Anche Corrado, fratello del benefattore, fu avviato ad una simile carriera e anch’egli venne immortalato nella Quadreria dell’Ospedale cittadino dal pennello di G. Montanari.
Emma Zonda, moglie di Silvio Macchi, nacque a Milano nel 1873 da Ambrogio e Natalina Mari.
L’ampia ricerca di Giorgio Sassi ha permesso di tracciare i vincoli matrimoniali che legarono gli Zonda ai più noti Panza di Biumo. Ad accomunare le due famiglie tuttavia non furono soltanto gli intrecci di famiglia ma prima ancora l’attività economica di produzione e commercio del vino.
Per quanto riguarda gli Zonda, si trattò da principio di un’attività svolta in ambito locale, che a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento conobbe un significativo ampliamento che li portò ad operare su scala nazionale. Pioniere di questo genere di coltivazione fu Ambrogio Zonda (1844-1907), originario di Varese. Sposatosi con Natalina Mari (1851-1879) di Capolago, nei pressi di Varese, ebbe tre figli: Enrico (1871-1925), Emma (1873-1912) ed Emilio (1876-1931).
Privi di discendenza Enrico, Emma ed Emilio si dedicarono assiduamente alla filantropia. A beneficiare della generosità dei due fratelli fu principalmente la città di Milano. Essi infatti nel dicembre 1913 decisero di finanziare la realizzazione del padiglione chirurgico che ancora oggi è intitolato alla loro memoria e, mentre Enrico destinò cospicue somme al Pio Albergo Trivulzio, oltre che alla costruzione di scuole e asili nelle Puglie e a Varese, Emilio nominò proprio erede universale l’Ospedale Maggiore di Milano.
Tornando ai benefattori dell’Ospedale di Circolo, bisogna ricordare come Emma e Silvio Macchi, che abitarono la villa al Sacro Monte di Varese, edificata per loro su progetto di Lodovico Pogliaghi, furono tra i principali fautori del rinnovamento che durante i primi decenni del XX secolo interessò le scuole per l’infanzia di Varese. L’istituzione degli asili di Bobbiate, Biumo Inferiore e Giubiano, infatti, si deve in gran parte al loro sostegno.
I coniugi Macchi riposano al piccolo cimitero del Sacro Monte di Varese in un monumento realizzato da Lodovico Pogliaghi.
(Ritratto di Erminia Daverio vedova Antonini - Pittore Pietro Bouvier)
La figura della vedova – rappresentata in abito scuro e con un ricco fiocco ricamato che spunta sotto il collo bianco – si staglia con evidente nitore sulla veduta di un arioso di paesaggio e richiama, nelle definizione dei contorni e nella resa quasi fotografica del protagonista altre opere eseguite dal pittore Pietro Bouvier che sappiamo particolarmente attivo nell’ambito della ritrattistica.
Il riferimento corre al Ritratto della nipote dell’autore, Lina e a quello di Luigia Schoch-Tosi, nei quali la pennellata corposa del Bouvier indugia puntigliosamente sullo sfondo o sui volti degli effigiati nei quali la memoria del modello fotografico traspare con evidente chiarezza.
Per tale stesura sottile e irreprensibile in quanto a fedeltà fisionomica, Bouvier si dimostra debitore nei confronti di Hayez e Casnedi dei quali era stato allievo negli anni della formazione braidense.
Diverse sono le citazioni del Bouvier tratte dalla pittura dei contemporanei Paolo Sala (Milano 1859-1924) e Luigi Napoleone Grady nativo del pavese (Santa Cristina, 1860), attivo a Milano (un ritratto firmato si conserva alla Ca’ Granda) e morto a Brusimpiano (Varese) nel 1949.
Rimasta vedova dell’avvocato Angelo Daverio di Bodio Lomnago (Varese), Erminia prese dimora a Varese dedicandosi alla filantropia. Morì il 21 maggio 1907 e volle che il suo nome fosse legato ad opere di carità. Per questo nel testamento olografo sottoscritto il 15 luglio 1904 nominava erede universale dei suoi beni la Congregazione di Carità di Varese.
Nell'elenco dei principali benefattori dell'Ospedale e legati diversi dal 1870 in avanti, ad vocem:
“1907 Antonini Erminia Vedova Daverio decessa il 21 Maggio 1907 in Varese /casa Bianchi/ con suo testamento olografo 15 Luglio 1904 in atti Dott. Angelo Contini, pubblicato il 22 Maggio con verbale n. 1177 di suo Rep.o ha nominato erede universale dei suoi beni coll’onore di alcuni legati; la Congregazione di carità di Varese ammontante a Lire 21.000 e Pert. 125 – terreni venduti il 4 Marzo 1913 al Sig. Crespi per Lire 28.000 – Totale Lire 49.000. Ritratto dipinto dal pittore P. Bouvier di Milano (Lire 960). Venduti i fondi risulta la eredità Lire 55.700. N. B. I terreni soggetti a livelli”.
(Ritratto di Eugenia Mentasti e di Pinuccia Mentasti - Pittore Mario Ornati)
Eseguiti quando Eugenia e Pinuccia Mentasti erano già defunte, i due ovali non dovettero almeno all’inizio essere destinati alla Quadreria del nosocomio cittadino, considerato anche il loro piccolo formato che si discosta da quello usualmente prescelto per le grandi opere che ritraggono benefattori.
Negli esemplari dell’Ospedale di Varese, la pennellata corposa dell’Ornati non indugia puntigliosamente sullo sfondo o sui volti delle bambine, ma preferisce ritrarle con tocco morbido e delicato (soprattutto l’effige di Eugenia).
Impostate su sfondi ariosi di paesaggio, le tele richiamano, nell’esecuzione e nelle scelte cromatiche, il Ritratto di Giovanna Bernocchi Venzaghi e il Ritratto di Aldo Venzaghi, pure firmati dall’Ornati e ricavati da fotografia2. In entrambi i dipinti, conservati presso l’Azienda Ospedaliera di Busto Arsizio, si confermano le scelte pittoriche dell’Ornati, assestate su una tavolozza limpida e su una schietta freschezza di tocco.
Ricavate da scatti fotografici, come denunciano le iscrizioni apposte sul verso dei dipinti, le tele rispecchiano i dati fisionomici delle due sorelle immortalate nelle fotoceramiche della cappella di famiglia, nel cimitero monumentale di Varese.
Adele Ponti (1892-1966), madre di Eugenia e Pinuccia, sposò Gaetano Isella, proprietario di una falegnameria, e nel 1917 nacque Pinuccia.
Rimasta vedova, la Ponti si unì in seconde nozze con Mario Mentasti (1877-1962). Dal matrimonio nacque Eugenia, che venne legittimata dal Mentasti, acquisendone il cognome.
La donazione dei due dipinti all’Ospedale di Circolo di Varese avvenne, secondo quanto riferito da Cristina Pesaro, nel 1966, in seguito alla morte della genitrice delle bambine. Giancarlo Bianchi, unico erede della famiglia, intenzionato a commemorare i propri congiunti scomparsi, donò i dipinti, beneficando il nosocomio cittadino.
(Ritratto del cardinale Federico Borromeo - Pittore lombardo)
La tela rappresenta il Cardinal Federico Borromeo, con l'indice della mano destra a tenere il segno di un piccolo volume. Si tratta, con ogni probabilità, di una copia parziale, o comunque di una derivazione dal pendant “Ritratto di
Carlo Giuseppe Tranchinetti con il cardinale Federico Borromeo” (Inv. n. 77), pure conservato presso l’Ospedale cittadino e forse derivato da dipinti di più alta ufficialità e di maggiore valore pittorico o da incisioni destinate a divulgare l’immagine del Borromeo. Molto simile in entrambi risulta essere infatti la fisionomia del volto del presule milanese.
A tal proposito bisogna sottolineare come la vasta produzione di ritratti ufficiali del prelato milanese ci permettere di riconoscere le matrici comuni per alcuni dipinti che lo presentano nel pieno della maturità, come avviene nel ritratto conservato a Milano (Pinacoteca Ambrosiana, Inv. n. 552). Questo rappresenta il religioso a mezza figura in atto di benedire mentre tiene nella sinistra una lettera. A sua volta l’opera milanese sembra desunta da un originale riconoscibile attraverso una stampa in controparte che reca la scritta “FEDERICVS BORROMAEVS S.E. R. CARDINALIS S.M. ANGELORV ARCHIESPISCOPVS MEDIOL.”.
L’iconografia federiciana, molto fiorente e attestata dalla presenza di diversi ritratti seicenteschi, permette di rinvenire altri modelli iconografici ai quali sembra poter risalire l’immagine del nosocomio varesino. Il riferimento è al piccolo dipinto su rame dell’Ambrosiana (fig. 353, p. 291), condotto con discreto mestiere e a sua volta accostabile al ritratto di Federico Borromeo della Quadreria dell’Arcivescovado di Milano (olio su tavola, cm 26 x 18) e al ritratto di Federico Borromeo conservato nel Collegio di Rho (olio su tavola, cm 20 x 13,5).
Il Borri pubblica due volte l’immagine fotografica del dipinto varesino, specificando che nel torno di anni nei quali il suo volume sulla storia dell’Ospedale veniva dato alle stampe, il dipinto si trovava nella “sala capitolare, o delle adunanze dei Deputati” e dunque in posizione di assoluta eminenza, sicuramente per ricordare l’origine dell’Ospedale cittadino, l’intervento riformatore dell’eminente prelato e i suoi provvedimenti per far fronte alle problematiche amministrative e finanziarie dell’ente.
Oggi, il dipinto si presenta in mediocre stato conservativo, avendo subito una drastica ridipintura che ha fortemente compromesso il generale equilibrio della pellicola pittorica soprattutto a livello del volto del personaggio.
(Ritratto del cardinale Federico Borromeo - Pittore lombardo)
Questo dipinto rappresenta forse il più noto dei numerosi ritratti del cardinale, in cui Federico Borromeo in vesti cardinalizie è ripreso di profilo, seduto alla scrivania in atto di scrivere su un quaderno aperto, con la mano sinistra delicatamente appoggiata sul piano del tavolo e la mano destra ad impugnare la penna tra l’indice e il pollice, con un atteggiamento di ossequiosa riservatezza che rivela l’indole raccolta e profondamente devota del prelato, con lo sguardo volto verso il dipinto della Madonna con il Bambino, posto sulla parete di fronte.
A delimitare la scena c’è, in primo piano, la scrivania sulla quale sono posti numerosi libri in consultazione, mentre sul fondo vi è un drappeggio rosso, sospeso sul lato destro, ad incorniciare la scena. Diversamente dagli altri ritratti, qui Federico è raffigurato relativamente giovane, con i baffi e una corta barbetta scura come la folta capigliatura.
Il dipinto dell’Ospedale di Varese risulta essere una copia del ritratto conservato presso la Pinacoteca Ambrosiana di Milano e, giunto a noi in buono stato conservativo, è stato sottoposto ad un intervento di restauro nel 2004 che ha permesso di asportare la patina di sporco superficiale e di riacquistare l’originale cromia. Ciononostante l’opera qui presa in esame rivela uno scarto qualitativo rispetto alla tela originale, nella direzione di un minore nitore dei contorni e di una consistenza cromatica della figura meno convincente.
Ad oggi non si hanno notizie circa la data e la ragione di ingresso dell’opera nella collezione dell’ospedale civico di Varese, anche se il Borri lo cita come appartenente al patrimonio Ospedaliero già all’inizio del secolo scorso.
Riferendoci al ritratto dell’Ambrosiana, conviene ricordare che nell’inventario del 1685 è descritto a c. 7: “Lo spazio ch’è trà le fenestre, che guardano la strada, è occupato da un ritratto/del Sig.e Card. Federico Fondatore sedente in atto di scrivere, incornicciato d’/oro e alto B 2 P2 largo B 1 P 8”. Nell’inventario dei quadri e mobili che sono nella sala (nn. 1796 e 1798) è indicato a c. 110: “Nell’altro tavolino corrispondente il ritratto in busto del marchese Ver/cellino Maria vivente in armatura, senza cornice… Sopra di questo è appeso il ritratto del Sig. Card. Federico fondatore/di mezza età sedente, in atto di scrivere, di mano…/in cornice indorata”. Sempre riferendoci al ritratto dell’Ambrosiana, il Ratti, nella sua Guida, riferisce che l’opera è sita sulle pareti della scala (“sulle pareti della scala stanno molti ritratti di contemporanei, tra cui il Cardinale Federico Borromeo, Fondatore, nella sua florida virilità”), mentre più genericamente Galbiati, registra la presenza di numerosi ritratti del cardinale in anticamera (“nell’anticamera, alle cui pareti stanno i ritratti secentesco, settecenteschi del Cardinale Federico Borromeo fondatore”).
Nel catalogo dell’Ambrosiana, si specifica che il ritratto è con ogni probabilità di scuola lombarda, presenta una evidente nitidezza di segno nonostante una mancanza di rigore nell’esecuzione (si vedano le mani poco incisive) che porta ad attribuire l’opera ad un allievo dell’Accademia e a ritenerla eseguita post mortem. L’opera si lega a rovescio ad un’incisione del cardinale giovane, della quale il copista pare essersi avvalso; si tratterebbe di un’incisione in legno riportata anche nel frontespizio del libro del Ratti, tratta dall’opera del Bosca.
(Ritratto di Felice Bizzozero, canonico di Azzate - Pittore lombardo)
Il Ritratto del canonico Felice Bizzozero si presenta come un dipinto di scarsa qualità, “di maniera” e forse più interessante per la biografia dell’effigiato che per lo stile artistico.
L’effige ripete stancamente moduli iconografici di una ritrattistica risalente a quasi un secolo addietro, lasciando indefinito tanto l’approfondimento psicologico dell’effigiato quanto la stantia ambientazione contro la quale si erge la figura del canonico.
Nel manoscritto conservato presso l’Archivio di Stato di Varese e compilato con l'elenco dei principali benefattori dell'Ospedale e legati diversi dal 1870 in avanti, ad vocem si legge: “Con testamento 15 Settembre 1817 legò all’Ospitale di Varese Lire 14mila Milanese coll’onore fra gli altri di distribuire ogni anno n. 7 doti da Lire 60 cadauna a povere nubende di Azzate e n. 2 da Lire 50 a povere nubende di Brunello con preferenza alle orfane di padre o di madre. Concentramento alla Congregazione di Carità di Azzate. Seduta 21 Maggio 1703. libro in bollo n. 7 pag. 131. il 7 Marzo 1904 consegnato il patrimonio alla Congregazione di Carità di Azzate e Brunello. Seduta 26 Marzo 1904 n. 17. Libro S. pag. 109.
(Ritratto di Fiorina Bossi in Colombo - Pittore Guido Bertini)
In quest’opera la benefattrice Fiorina Bossi è ritratta in abito scuro su un fondo indeterminato – che sulla sinistra degrada in tenui sfumature verdi – e ravvivato da veloci virgolettate, quasi filamenti di colore puro.
La stessa tecnica è ravvisabile in un altro splendido ritratto di figura femminile, firmato dal Bertini e pure ascrivibile allo stesso torno di anni: ritratto di donna (ritratto della moglie), in collezione privata, Varese.
Il dipinto, nel quale si accentua la maniera morbida e sfumata che per certi versi lega Guido Bertini alla produzione lombarda di fine Ottocento, è costruito con una gamma cromatica sobria e da pennellate corpose che si soffermano a descrivere con minuzia i tratti del viso e l’intensità dello sguardo di Fiorina Bossi.
Databile al 1929 (come denuncia la targhetta commemorativa apposta sulla cornice della tela) o all’anno successivo, l’opera dell’Ospedale di Circolo di Varese rinuncia a qualsiasi ambientazione della figura per concentrare l’attenzione dello spettatore sull’espressione e sulla realtà psicologica dell’anziana donna.
(Ritratto di Francesco Colombo - Pittore Luigi Conconi)
L’opera che ritrae il benefattore Francesco Colombo, morto a Varese il 1° novembre 1905, costituisce, assieme al pendant del ritratto di Giulio Pirovano Visconti, uno fra i più notabili esemplari della quadreria del nosocomio varesino.
Traspare dall’opera la maniera franta e mossa tipica dell’autore Luigi Conconi, la cui stesura pittorica non è esente da espliciti richiami alla tecnica sfocata e discontinua di Tranquillo Cremona e di Daniele Ranzoni di cui il Conconi fu sodale.
Conservatasi in discreto stato, la tela, richiama anche certi brani pastosi e di tocco di pittori che operarono a cavallo tra l’ambiente prealpino, le città svizzere e Milano. Il riferimento corre a Filippo Franzoni (1857 - 1911) nativo di Locarno, ma ancor di più ad Adolfo Feragutti Visconti (1850 - 1924) nativo di Pura e seguace di Tranquillo Cremona presso le aule di Brera.
Nel genere della ritrattistica praticato da questi autori viene accentuata la caratterizzazione psicologica dei personaggi attraverso una pittura di evocazione atmosferica basata su contorni sfumati e macchie di colore. Queste peculiarità sono ben visibili, ad esempio nell’autoritratto di A. F. Visconti, conservato presso la Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Tornando al nostro autore, conviene ribadire che proprio in virtù dell’apprezzamento raggiunto presso la società intelettual-liberale lombarda, spesso protagonista di munifici atti di liberalità, egli eseguì importanti tele per altri istituti caritatevoli ed assistenziali.
È il caso del ritratto di Tullo Massarani che il Conconi firmò nello stesso giro di anni dei quadri del nosocomio varesino. Accomunano le opere sopraccitate le pose anticonvenzionali degli effigiati e la stessa maniera franta e ravvivata da rapidi e sparsi tocchi di colore di tonalità calde.
Il ritratto del benefattore varesino Francesco Colombo fu pagato Lire 750 e contribuì ad elevare il generale livello artistico della raccolta della città di Varese, come risulta dalla delibera di affidamento dell’incarico al Conconi, che fu prescelto: “nell’intento di avere nella serie di ritratti dei benefattori dell’istituto dei quadri che rappresentino egregiamente una delle più caratteristiche scuole della pittura moderna”.
Varesino e appassionato cultore dell’arte dell’intaglio, Francesco Colombo proseguì l’attività dell’azienda paterna di mobili artistici. È ricordato per aver restaurato i pulpiti e le cantorie lignee della basilica di San Vittore di Varese. Con testamento olografo 18 Ottobre 1905 nominò erede di tutto il suo patrimonio l’Ospedale di Varese, lasciando alla moglie Vittorina Tenconi l’usufrutto generale della sua proprietà.
(Ritratto di Francesco III d’Este duca di Modena - Pittore Giuseppe Bonino)
L’ovale raffigura il duca di Modena Francesco III d’Este in abiti militareschi, con l’armatura e il bastone di comando che alludono alla sua carica di colonnello del Kürasserie-Regiment della corte imperiale. Francesco esibisce, inoltre, la fascia azzurra dell’ordine dello Spirito Santo e porta al collo l’ambita insegna del Toson d’oro.
Nell'inventario patrimoniale dell’Ospedale, comprendente le opere della quadreria e stilato nel 1997, il ritratto viene registrato come esistente presso l'Ufficio del Direttore Sanitario, al primo piano di Villa Tamagno. Risulta purtroppo rubato nel gennaio del 2001 e da allora non più rintracciato.
Dal confronto tra il dipinto dell’Ospedale di Varese e il suo identico pendant conservato nel Palazzo sede del Comune, scaturì la disamina storico-critica confluita nell’esposizione del 1999.
Come già analizzato da Francesco Frangi, certe secchezze disegnative che contraddistinguono l’opera rendono non del tutto agevole l’inserimento, all’interno della vicenda artistica del pittore Giuseppe Bonino, del ritratto qui analizzato, i cui caratteri anomali rispetto alla produzione solitamente più raffinata dell’autore possono forse trovare spiegazione nell’impostazione ufficiale del dipinto e nella scarsa attitudine dell’artista per simili rappresentazioni celebrative e quasi araldiche.
Sulla base di un'indicazione documentaria reperita a suo tempo dal Borri, l’opera fu commissionata al Bonino dagli stessi Deputati dell’Ospedale il 17 febbraio del 1776 e venne realizzata mentre il sovrano ancora era in vita, nel 1777, per la somma di centoventicinque lire. Nel 1774, infatti, il duca dispose che l'amministrazione dei beni appartenuti al soppresso collegio dei Gesuiti di Varese, ed entrati in suo possesso a partire dall'anno precedente, fosse commessa all'Ospedale cittadino.
Come ricordato sopra, presso Palazzo Estense (sede del Comune di Varese) esiste una seconda versione del ritratto, iconograficamente identica a quella discussa in queste righe.
Il duca di Modena Francesco III d’Este, infatti, nominato signore di Varese da Maria Teresa nel 1765, prese residenza nella grande dimora cittadina di Tommaso Orrigoni, avviandone da subito la trasformazione in palazzo di corte, sulla scorta dei progetti forniti dall’architetto Giuseppe Antonio Bianchi. I primi interventi furono avviati nel 1766, ma solo nel 1768 si diede inizio ai lavori di ampliamento dell’edificio che riguardarono anche la sala delle assemblee al piano terreno.
Sempre a ridosso dello stesso decennio, Giuseppe Antonio Bianchi progettò il grande camino marmoreo, al centro della parete maggiore della sala, sopra al quale venne collocato un fastigio in stucco policromo destinato ad accogliere il ritratto di Francesco III d’Este. Situato dunque in una posizione di assoluta eminenza all’interno del palazzo, il dipinto raffigura il duca nei medesimi abiti e nell’identica posa del ritratto un tempo conservato presso il nosocomio cittadino.
Tuttavia, a dispetto della sua rilevanza storica e del prestigioso contesto che lo accoglie, il ritratto vanta una considerazione storiografica decisamente modesta, in larga parte limitata alla semplice pubblicazione della sua immagine quale accertata effigie del signore di Varese.
Secondo l’analisi e la descrizione effettuate nel 1999 in occasione della mostra, confrontato con l’esemplare in Palazzo Estense, il dipinto ospedaliero rivelava una qualità più scadente (in parte accentuata dalle mediocri condizioni di conservazione) che indusse a ritenerlo una replica disimpegnata e un poco corsiva della tela conservata presso la sede del Comune, la cui esecuzione venne collocata in un momento leggermente anteriore, da collocare intorno alla fine degli anni sessanta del Settecento.
In tal modo, nella disamina storico-critica compilata nel 1999, la tela del Palazzo Estense veniva definita la prima redazione del ritratto ducale eseguita dal Bonino, mentre la versione dell’Ospedale varesino veniva considerata una replica di qualche anno successiva e meno felice.
(Ritratto di Gaetano Tognola - Pittore lombardo)
Una raffinata tecnica esecutiva affiora con grande evidenza nella definizione dell’abito del nobil’uomo Gaetano Tognola, nella colorata sopravveste a fasce colorate, nel frusciante pizzo e nel fiocco azzurro svolazzante, restituiti con una stesura sciolta e luminosa, impreziosita da vivaci rialzi cromatici.
Una condotta più densa contraddistingue, invece, la resa del volto e lo scorcio abbreviato della mano del benefattore ritratto di tre quarti.
Tra i più problematici – ed interessanti – dipinti della raccolta del nosocomio, l’ovale è stato sottoposto a manomissioni tali da comprometterne una chiara lettura ed una completa comprensione.
L’opera che ritrae Gaetano Tognola viene menzionata soltanto dal Borri e dal Bagaini. Entrambi riportano riproduzioni fotografiche del dipinto che però, sorprendentemente, presentano l’immagine del benefattore senza parrucca, ma con capelli corti, sistemati in una goffa e grossolana acconciatura. Nelle immagini fotografiche, altrettanto incongrui risultano i particolari della spalla sinistra ed il collo della sopravveste.
Nonostante l’opera sia a tutt’oggi in precario stato conservativo e presenti diffuse abrasioni e vistose cadute di colore nella parte inferiore, è tuttavia possibile notare il suo generale equilibrio e la coerenza compositivi.
Nonostante lo stato attuale del dipinto induca alla cautela, sembra possibile poter avanzare, in questa sede, qualche parallelo con l’opera pittorica di Giuseppe Bonino che sappiamo molto attivo per le più notabili famiglie cittadine e anche per alcuni ritratti di benefattori dell’Ospedale di Circolo.
Tornano nell’opera qui presa in esame alcuni elementi tipici della maniera del Bonino come una certa inclinazione per composizioni luminose e nitide e un generale assestamento su scelte ancora alla Magatti. Sono visibili, inoltre, le felici, e perciò tante volte replicate, pose dei personaggi che il Bonino sceglie di ritrarre lievemente girati su di un lato e con la mano aperta verso lo spettatore (si vedano il ritratto di Carlo Martignoni, quello di Carlo Giuseppe Veratti o quello di un altro nobile membro della famiglia Martignoni).
Pure è ravvisabile un certo gusto per la raffinatezza dell’abbigliamento mondano. Per quest’ultimo aspetto si confronti, l’immagine gratulatoria con l’autoritratto di Giuseppe Bonino (recentemente incluso nel catalogo del pittore da Francesco Frangi) o con il ritratto dell’orafo Angelo Pasquale Ventura, già presso l’Ospedale di Varese.
Quanto all’effigiato, risulta che Gaetano Tognola fosse uno degli iscritti nel “Venerando Collegio degli Ingegneri e Architetti di Milano e del suo Ducato”. Egli nacque, così come ci riporta il Borri, da “Carlo Alessandro, dottor in legge, e per molti anni procuratore dello spedale, e da Giovanna Biffignandi” il 29 maggio 1766, a Milano.
Inoltre, nel 1799 Gaetano Tognola viene citato tra i nuovi amministratori per il Luogo pio della Misericordia in Milano, in sostituzione di Gottardo Calvi, assieme a Luigi Albertolli.
Rimasto celibe, il 9 dicembre 1829 a Varese, dove aveva preso dimora sin dal 1825, stendeva le sue ultime volontà a favore del “venerando Ospitale civile di questa città di Varese, Delegazione di Como, al quale, a titolo di legato per detta incombenza, assegno annue milanesi lire seicento, da ricavarsi dalla stessa mia sostanza”. Disponeva che ogni anno, in perpetuo si distribuissero agli abitanti della Rasa (quartiere tutt’ora esistente in Varese), “uno staio di riso, un decimo di quintale metrico di sale da cucina, e tanto pane, quanto se ne potesse convenevolmente fare, con uno staio di segale e uno di granturco…”.
Forse memore della sua esperienza amministrativa presso i luoghi di assistenza milanesi, istituì un Opera Pia alla quale venne dato il suo nome. L’istituto di assistenza soccorreva le “povere figlie nubili in occasione del rispettivo loro collocamento in matrimonio, che siano del luogo della Rasa suddetta, ed ivi stabilmente domiciliate, e dopo di queste a quelle stabilmente domiciliate in detta città di Varese”.
Morì a Varese il 27 settembre 1838.
Il Borri prosegue scrivendo che “del benefattore è reso duraturo il ricordo anco per un suo ritratto, a mezza figura, di sconosciuto e poco valente pennello, che lo ha rappresentato i veste da camera, mostrando colla destra una lettera chiusa. Non fu commesso all’artista dallo spedale. Credesi esistesse già nella casa del Tognola”.
(Ritratto di mons. Gerolamo Comi - Pittore Angelo Cantù)
La tela qui presa in esame, conservata nella sede luinese dell’azienda ospedaliera di Varese, testimonia la specializzazione del pittore Angelo Cantù nel genere del ritratto, confermata anche da due dipinti della raccolta dell’Ospedale Maggiore di Milano e da altri due conservati presso l’Ospedale di Busto Arsizio, come il ritratto di Carolina Della Bella Cardani e il ritratto di Ida Tosi Borri.
Nei dipinti di Busto, così come in quello di Luino si può agevolmente notare l’acribia tecnica del Cantù nel descrivere le qualità visive e tattili dei tessuti.
Nell’effigie del celebre presule, che posa seduto su una poltrona dall’alto schienale, stupiscono gli effetti di cangiantismo nei panneggi della veste del prelato e l’effetto serico del copricapo che il Comi tiene nella destra. Esemplato su un’istantanea fotografica, il dipinto rivela anche un saldo ancoraggio, da parte dell’autore, alla tradizione pittorica del tardo Ottocento, maniera certamente prediletta dalla borghesia.
A tratteggiare un esauriente profilo biografico del benefattore Mons. Comi, intervengono diversi documenti, numerose riproduzioni fotografiche, scultoree e dipinte.
Nato ad Induno Olona il 17 maggio 1831, figlio di Giuseppe e Annunciata Gervasini, si trasferisce pochi anni dopo a Luino con la famiglia. Entra in seminario e viene ordinato sacerdote nel 1854. Consegue il dottorato in Diritto Canonico e dedica buona parte della propria esistenza all’insegnamento della materia, nel seminario Teologico della Diocesi di Milano. Viene nominato abate mitrato della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano e ricopre diversi incarichi di prestigio quali quelli di giudice del tribunale ecclesiastico diocesano, di prelato domestico di Sua Santità e di canonico onorario del Venerabile Capitolo Metropolitano3. Estendendo le funzioni parrocchiali della basilica, fonda un oratorio per i fanciulli e si preoccupa dell’assistenza ai soldati, ai poveri e agli infermi. Interviene personalmente con generose sovvenzioni anche fuori della parrocchia, spaziando “dalle scuole alle cucine dei poveri, dagli asili d’infanzia ai ricoveri pei vecchi, dai sodalizi di pura pietà ai corpi elettorali, dalla stampa allo sport educativo”. Ebbe diretto beneficio della sua magnanimità anche la Biblioteca Ambrosiana di Milano per la quale il Comi procura l’acquisto di pregevoli pere a stampa e di manoscritti orientali.
Nel 1905 elargisce una cospicua donazione alla Parrocchia San Giovanni Battista di Induno Olona per la costruzione dell’Oratorio dei giovani (istituzione che ancora oggi porta il suo nome). Due anni più tardi, con ulteriore donazione, istituisce a Luino un “ospizio per poveri vecchi abbandonati”.
Monsignor Comi muore a Milano il 20 dicembre 1909 e le sue spoglie sono custodite in una cappella del cimitero di Luino.
(Ritratto del notaio Gian Giacomo Castiglioni - Pittore lombardo)
La tela, in mediocre stato conservativo, è stata recentemente reintelata e ha subìto diverse drastiche ridipinture al punto che risulta davvero complesso darne una valutazione attendibile sul piano dello stile e dei caratteri originali.
Probabilmente rifilata sul lato destro, è stata malamente acconciata nella porzione corrispondente all’avambraccio del benefattore (piuttosto grossolana è la realizzazione del polsino sinistro e della manica nera dell’abito). L’impostazione del dipinto, nel quale la figura è ritratta seduta e di tre quarti, risulta piuttosto tradizionale, incorniciata com’è da un tendaggio che, nella parte superiore, ricade in numerose, pesanti pieghe.
Ciò che resta o è ancora visibile dell’esecuzione originaria, consente di stabilire un collegamento, seppure soltanto tangente, ai modi consueti della ritrattistica dei primi del Seicento, confermati anche dall’abbigliamento del notaio Castiglioni. Vista la qualità modesta della fattura, non esente da un certo ritardo culturale, questo riferimento non può andar oltre l’orientamento generico e il pallido ricordo dei ritratti di Giuliano Bozzobonelli.
Iscritto presso il collegio dei dottori di Milano, di antica e nobile famiglia varesina, figlio dell’avvocato Gian Enrico, dimorante un tempo nella parrocchia milanese di san Vittore in Porta Vercellina, e negli ultimi anni della sua vita nel borgo natale, Gian Giacomo Castiglioni dettava il 27 novembre 1599, il proprio testamento al notaio varesino don Giuseppe Dralli di Tomaso.
Essendo celibe, istituì erede di tutti i suoi beni l’unico fratello Giovan Battista, anch’egli operante nella professione forense. Istituiva un’Opera Pia intitolata a suo nome, destinata, per avverse vicissitudini, a non portare alcun vantaggio al nosocomio cittadino. Con la somma lasciata dal Castiglioni, infatti, vennero acquistati diversi terreni e beni immobili nei territori di Binago, San Salvatore, grossa parte di Malnate e di Vedano Olona. Secondo quanto riferisce Luigi Borri, per quasi due secoli l’amministrazione dell’Opera Pia Castiglioni venne gestita dall’omonima famiglia, ma nel 1786, per adempiere un decreto rivolto alle pie fondazioni presenti nella lombardia austriaca e mirante al riordinamento generale della pubblica beneficenza (sottoscritto da Giuseppe II, il 9 marzo 1786), venne assegnata all’amministrazione dell’Ospedale.
(Ritratto di Giovan Battista Bianchi - Pittore Giuseppe Bonino)
Il dipinto risulta essere stato rubato nel gennaio 2001 e, come risulta dall'aggiornamento dell'Inventario delle raccolte ospedaliere del 1997, era collocato presso l'Ufficio del Direttore Sanitario, in Villa Tamagno.
Come hanno chiarito le ricerche di Francesco Frangi sul pittore varesino Giuseppe Bonino, confluite nella mostra del 1999, il dipinto preso qui in considerazione è cronologicamente collocabile qualche tempo dopo il 1775, a poca distanza dalla morte del filantropo varesino Giovan Battista Bianchi.
Come suggerisce la scheda di catalogo redatta in occasione della mostra sopraccitata, il ritratto ovale si contraddistingue per una condotta pacata e, come sempre accade nella ritrattistica del Bonino, per un’attenta concentrazione nella resa vivida dello sguardo dell’effigiato.
Questa cifra stilistica, inoltre, accomuna gli altri ritratti del Bonino presenti nella raccolta ospedaliera.
Originario di Luvinate, Giovan Battista Bianchi nacque da Carlo Stefano e Teresa Minonzio il 26 dicembre 1694. Nominò quale erede delle proprie sostanze Giulio Martignoni, figlio di Carlo Francesco, al quale lasciò anche la casa di famiglia nel paese natale.
Alla metà del Settecento i Martignoni erano tra i principali proprietari di dimore dopo l’Ospedale e i Gesuiti3. Carlo Francesco ebbe dodici figli. Il primogenito Giulio si unì in matrimonio con la nobile Fulvia Millo di Casale Monferrato. L’accresciuto prestigio sociale della nota famiglia Martignoni – costituito, fra l’altro da ampie proprietà nelle pievi di Varese, Castelseprio e di Como, si accompagna ad eclatanti committenze artistiche. Risale infatti agli anni di Giulio e della consorte Fulvia il ciclo di ritratti affidati al pittore Giuseppe Bonino e raffiguranti le effigi dell’intera dinastia Martignoni.
Tornando al nostro Giovan Battista Bianchi, sappiamo dal Borri di un suo codicillo testamentario risalente al 19 luglio 1771 e rinnovato da un memoriale dell’8 giugno 1775, con il quale veniva data disposizione affinché alcuni crediti a lui spettanti fossero devoluti al nosocomio di Varese, del quale era stato deputato per diciotto anni. Per tale ragione, il 17 febbraio 1776 i deputati dell’Ospedale commissionarono a Giuseppe Bonino un ritratto del benefattore.
Una seconda versione del filantropo varesino è presente in collezione privata. Questa, realizzata con ogni probabilità in tempi contigui, riporta in basso a sinistra un’iscrizione che allude all’eredità lasciata da Giovan Battista a Giulio Martignoni. Inoltre, sulla destra dell’ovale compare lo stemma della casata Martignoni, quasi a sancire l’aggregazione postuma del Bianchi alla nota casata varesina.
(Ritratto di Giovanni Antonio Francesco Albuzzi - Pittore lombardo (Paolo Petter?))
Il ritratto, oltre a sottolineare la generosità del benefattore varesino, richiamata dalla scultura raffigurante la Carità, ribadisce, attraverso l’iscrizione sul cartiglio vicino all’effigiato, l’importante attività di storiografo dell’Albuzzi, autore delle Memorie per servire alla storia de’ pittori, scultori e architetti milanesi, oltreché Segretario Interinale dell’Accademia di Brera prima della nomina perpetua di Carlo Bianconi.
Sebbene il dipinto risulti essere stato oggetto di localizzate ridipinture, è possibile notare come la figura dell’intellettuale sia stata costruita con fare largo, monumentale, attento anche all’ambientazione del personaggio che, in una posa affettata, ostenta con la mano destra una penna d’oca e il volume delle Memorie.
Il ritratto che immortala uno fra i più eminenti benefattori dell’Ospedale di Varese, nonché una fra le più complesse figure della storiografia artistica lombarda del XVIII secolo, non ha goduto di grande interesse da parte della critica, fatta eccezione per la puntuale menzione del Borri, del Bagaini e, più di recente, di Laura Facchin.
La paternità dell’immagine gratulatoria, è stata sempre confermata, da parte della critica, a Paolo Petter a proposito del quale la Facchin lamenta tuttavia come nei più importanti repertori biografici non sia riportato alcun pittore con tale nome di battesimo. La studiosa però sottolinea che il cognome Petter è riferito a diversi artisti nati o comunque attivi a Vienna, tra gli ultimi decenni del Settecento e gli anni settanta del secolo successivo.
Le iscrizioni eseguite a pennello sul dipinto, inoltre, sembra che vogliano perpetuare e confermare, anche se in modo approssimativo, la tradizione dell’attribuzione del quadro al Petter.
Ad aumentare l’incertezza, contribuisce il silenzio dei documenti dell’ente ospedaliero che, contrariamente a quanto lasciano intendere le suddette citazioni critiche, si limitano a registrare un’opera dipinta “in grande, ed in piedi secondo il praticato per i grandi benefattori”, commissionata nel 1802 per la cifra di lire 332, ad imperitura memoria del cittadino Albuzzi.
Tuttavia, dando credito più a tradizioni orali che a consistenti appigli documentari, un Paolo Petter è documentato a Castello Cabiaglio come pittore e stuccatore, allievo del più noto e celebre concittadino Giovan Battista Ronchelli6. Se molto sappiamo al riguardo di quest’ultimo, quasi nulle sono invece le tracce documentarie per il Petter che sembra attivo anche nella stessa Cabiaglio.
Venendo ora a considerare l’analisi figurativa della tela, è d’obbligo ammettere un’indubbia difficoltà nel proporre un giudizio definitivo, soprattutto a causa del cattivo stato conservativo e del carattere sommario di alcune sue parti, probabilmente da imputare a cattive operazioni di pulitura e di restauro.
A soffrire maggiormente di passate manomissioni sono soprattutto il volto dell’Albuzzi e il generale equilibrio chiaroscurale dell’opera che risulta impoverito, oltrechè compromesso da un denso strato di sporco. Inoltre, in una riproduzione fotografica priva di data il ritratto risulta sovrastato nella parte a sinistra da uno stemma araldico ad oggi non più visibile e che forse avrebbe contribuito ad agevolare la ricerca riguardo il benefattore e la genesi della sua effigie.
Certamente futuri e più approfonditi scavi documentari potranno contribuire alla ricostruzione biografica sia dell’Albuzzi quanto dell’autore del suo ritratto.
Tuttavia, sembra utile in questa sede proporre un possibile confronto, certamente parziale, con un ritratto conservato nella chiesa parrocchiale di Sant’Appiano a Castello Cabiaglio, raffigurante Bernardo Canobini, parroco di Cabiaglio dal 1815 al 1822. Il dipinto, già balzato all’attenzione di una recente ricognizione documentaria in Valcuvia, è a tutt’oggi opera di anonimo pittore.
Sebbene il diverso stato conservativo, nonché il differente formato rendano approssimativo il riferimento all’opera del nosocomio varesino, conviene notare come la figura del prelato, ritratto contro un’affollata libreria, si stagli con una felice e dosata distribuzione della luce e con discreto impianto monumentale. La constatazione di un saldo impianto della figura e di una levità di tocco in grado di suggerire delicati trapassi chiaroscurali nella cotta e soprattutto nel volto e nelle mani del prelato, contribuisce a rilevare il carattere originale e convincente di quest’anonimo artista.
La figura dell’Albuzzi, sebbene assai guasta, come spiegato poco sopra, si avvicina allo stile saldo dell’opera della chiesa di Sant’Appiano e comuni alle due tele risultano essere l’impianto monumentale delle figure, atteggiate in pose sostenute e dal tono autocelebrativo.
Sembra comunque accertato che per meglio comprendere e circoscrivere l’ambito di esecuzione del ritratto dell’Ospedale di Varese non si debba abbandonare il suolo lombardo a favore di quello austriaco, anzi si possa ragionevolmente circoscrivere l’ambito di ricerca alla Valcuvia e alla Valtravaglia (oltretutto terra d’origine dell’Albuzzi).
Non va infatti dimenticato che G. B. Ronchelli, che secondo alcune fonti fu maestro del Petter, è documentato anche come ritrattista e fu attivo come affreschista nell’antico nosocomio cittadino detto Nifontano, a partire dal 1754, lavoro che venne condotto in collaborazione con il quadraturista Ignazio Baroffio e ricompensato in natura con due mogge di grano e due brente di vino9. I dipinti furono commissionati al Ronchelli dalla Congregazione di Carità dell’Ospedale dei poveri, di cui il maestro fu membro dal 1750 al 1751 restandovi per un trentennio, fino al 1781-82.
Contatti dunque tra il nosocomio varesino, il Ronchelli (di cui è attestata la Deposizione di Cristo, conservata presso la chiesa dell’Ospedale) e l’ipotetico allievo Petter non dovettero certo mancare.
Venendo ora al personaggio effigiato, non è questa la sede per ripercorrere compiutamente la vicenda biografica dell’Albuzzi, per il quale si richiamano solo sommariamente i principali aspetti, collegati alla storia dell’Ospedale di Varese.
Ultimo discendente di una famiglia ritenuta originaria di Porto Valtravaglia, Giovanni Antonio Francesco Albuzzi nacque il 13 febbraio 1738 da Antonio Tomaso e Maria Elisabetta Zavaini. In giovane età, nel 1754, entrò nella Compagnia di Gesù, uscendone quattordici anni dopo, prima del suo ufficiale scioglimento.
Secondo quanto disposto nel testamento del 30 ottobre 1801, l’Albuzzi scelse l’Ospedale dei Poveri di Varese quale erede universale delle sue sostanze. I legami tra l’ente ospedaliero e la famiglia Albuzzi risalivano almeno all’ultimo quarto del Seicento e lo stesso Giovanni Antonio fu deputato dell’ente varesino nel 1799 e nel 1800.
Le cospicue somme di cui dispose l’Albuzzi derivavano soprattutto dal lascito del fratello maggiore Felice Annibale, deceduto senza eredi nel 1792. L’eredità confluì nelle mani del più giovane dei fratelli che si premurò di curare la sepoltura del maggiore presso la chiesa dei Padri Riformati dell’Annunciata, e da qui di trasferirla nell’oratorio di Villa Pero – oggi Tamagno – purtroppo non sopravvissuto.
Nota è la sua attività nel panorama della critica storiografica, a proposito della quale Laura Facchin ricorda come in una lettera del 23 gennaio 1773, inviata dal ministro plenipotenziario della Lombardia Asburgica, Carlo Gottardo conte di Firmian, al cancelliere Anton von Kaunitz, il nobile trentino ricordava di aver richiesto all’Albuzzi la compilazione di una “Storia dei pittori, scultori e architetti milanesi”.
Ancora la Facchin puntualizza che da alcune lettere scritte all’inizio del mese di gennaio 1773, risulta che l’incarico di redigere uno studio storico-artistico, venne conferito all’Albuzzi dal governo asburgico a seguito della rinuncia da parte del padre domenicano Giuseppe Allegranza.
Il lavoro di ricerca dell’Albuzzi procedette tanto che, nel maggio del 1780, il conte Firmian spediva al principe Kaunitz due tomi delle “Biografie dei Pittori Milanesi”.
(Ritratto del sacerdote Giovanni Battista Maroni - Pittore Solone Viganoni)
L’autore del ritratto del sacerdote Maroni indaga, con una certa compiaciuta minuzia accademica, tutti i particolari dell’ambiente domestico, nonché la caratterizzazione del volto del benefattore.
Interessante, nell’opera esaminata in queste righe, anche il dipinto con La Presentazione della Vergine al Tempio, parzialmente visibile, in alto a sinistra.
Opera confrontabile con la maniera puntigliosa di Giovanni Consonni o di Filippo Bellati, l’inedito ritratto gratulatorio rivela una maniera attenta e grafica nella definizione precisa dell’ambiente entro cui è raccolto l’erudito sacerdote, facendo di questa tela una delle più notabili della raccolta del nosocomio cittadino.
I riferimenti proposti contribuiscono in qualche modo ad abbozzare alcune fra le principali caratteristiche di Solone Viganoni di cui a tutt’oggi si possiedono scarne notizie documentarie ma che sappiamo essere presente con alcune sue opere alle rassegne espositive di Brera degli anni Settanta del XIX secolo.
Secondo quanto ci riporta il Borri, Giovanni Battista Maroni, figlio di Anton Domenico e di Caterina Biroldi, nacque a Varese il 5 dicembre 1793 e venne consacrato sacerdote nel 1817.
Fu docente, tra 1819 e 1820 nel Seminario arcivescovile di Monza e nel triennio 1821 – 1824 nel Seminario Arcivescovile di San Pietro Martire in Seveso. Abbandonato l’insegnamento, anche a causa di precarie condizioni di salute, divenne parroco di Jerago a partire dall’8 settembre 1824 e qui rimase fino alla morte. Scrisse di sua mano le proprie volontà l’11 giugno 1854, ma in un codicillo olografo del 25 ottobre 1869 modificava una parte delle disposizioni fissate nel testamento e beneficiava le comunità di Morosolo e di Jerago, oltre che l’Ospedale di Varese.
Giovan Battista Maroni stabiliva, infine, di destinare un letto per la cura di “un infermo della parrocchia di Morosolo” e di determinare, d’accordo con il parroco di Morosolo una somma annua per pagare i medicinali dei meno abbienti e delle puerpere. Morì il 25 dicembre 1869.
(Ritratto di Giulia Seregni, vedova Marchesotti - Pittore Amerino Cagnoni)
L’opera, inedita e da segnalare come una delle più interessanti della quadreria dell’Ospedale di Varese, ritrae la benefattrice accomodata su un elegante sofà ed abbigliata con sobrie ed eleganti vesti.
La maniera minuziosa e, allo stesso tempo, libera del pittore Amerino Cagnoni, restituisce, attraverso una calibrata introspezione, tutta l’intensità dello sguardo e del carattere del personaggio.
Sebbene, in mediocre stato conservativo, la tela varesina (portata a termine presumibilmente a ridosso della morte della benefattrice) si distingue per un sensibile naturalismo apprezzabile soprattutto nell’accurato incarnato del volto della donna e nel fondo arricchito da mobilio prezioso, tratteggiato con lievi tocchi di colore.
L’opera dimostra significative tangenze stilistiche con il ritratto di Luigi Gianetti, firmato dal Cagnoni nel 1912 e conservato presso la Quadreria dell’Ospedale Maggiore di Milano. Come avviene nel dipinto milanese, anche nel ritratto qui preso in considerazione, la minuzia del Cagnoni è tutta concentrata sull’espressione dell’effigiato mentre la pennellata vibrante si dispiega libera nel fondo.
Giulia Seregni andò in sposa a Cesare Marchesotti, varesino impegnato nell’imprenditoria edilizia. Rimasta vedova nel 1905, la Seregni si dedicò alla filantropia, a favore sia di istituzioni pubbliche che private.
Morì il 1 novembre 1909 e con testamento legava alla Congregazione di Varese cinquantamila lire da distribuire in elemosine libere e cinquemila lire da erogare in soccorsi ai poveri di Varese e delle Castellanze. Ancora oggi perpetua il ricordo di Giulia Seregni e del consorte la lastra tombale in marmo di Candoglia, scolpita del cimitero di Giubiano.
(Ritratto di Giulio Pirovano Visconti - Pittore Luigi Conconi)
L’opera che ritrae il benefattore Giulio Pirovano Visconti, discendente da nobile e antica casata milanese, condivide sia gli estremi cronologici che le caratteristiche stilistiche del ritratto di Francesco Colombo pure eseguito dal Conconi e conservato presso l’Ospedale di Varese. I due ritratti, assai vicini alla tecnica pittorica sfocata e discontinua di Tranquillo Cremona e di Daniele Ranzoni, si iscrivono nell’ambito delle numerose e fortunate immagini declinate sull’esempio della Scapigliatura lombarda.
Nell’opera qui presa in esame, inoltre, gli elementi di maggiore originalità risultano essere tanto la posa dell'effigiato, quasi avvolto in una misteriosa cappa scura, quanto lo sfondo lasciato indefinito e costruito da pennellate verdi, ricche di vibrazioni cromatiche.
Il dipinto risulta menzionato nell'Inventario Ferrari 1997 , dove si specifica che a tale data si trovava presso il Magazzino Generale; attualmente risulta non rintracciato.
Giulio Pirovano Visconti morì a Milano nel 1906. Rimasto celibe, segnalò nel proprio testamento suo fratello Umberto Pirovano Visconti quale erede universale. Oltre ad altre disposizioni a vantaggio di congiunti, familiari e del comune di Vedano Olona dove possedeva immobili e terre, il Visconti stabiliva di lasciare quarantamila lire all’Ospedale di Varese, con l’obbligo di un letto gratuito in perpetuo a favore dei poveri di Vedano Olona.
Il dipinto commissionato al Conconi costò 750 Lire.
(Ritratto del canonico Giuseppe Alfieri - Pittore lombardo)
Il ritratto, da collocare presumibilmente entro il terzo quarto del XVII secolo, è stato sottoposto ad un pesante intervento di restauro che ne ha indubbiamente obliterato i caratteri originali. Ad essere più pesantemente compromesso pare essere il corpo del munifico benefattore che risulta appiattito e semplificato in un’estesa superficie scura.
Sembrano, invece, conservare parte dell’originaria freschezza, le mani (anche se convenzionale, merita una menzione la soluzione dell’indice della mano sinistra che tiene il segno del piccolo libro con tenoni e fermagli) e il volto dall’espressione intensa.
Tornano utili alcuni confronti con tele databili allo stesso torno di anni. Tra di esse, il più vicino in termini stilistici, pur con le riserve dovute al mediocre stato conservativo, sembra essere il ritratto di Angela Zanatta Cotta, di anonimo autore lombardo e conservato presso la collezione della Ca’ Granda (1669 circa). Risulta ancora più attinente al dipinto dell’Ospedale di Varese, il ritratto di Giorgio Verdesio, (opera di anonimo autore lombardo, 1671) vista anche l’impostazione della giovane figura d’uomo nello spazio incorniciato, in alto a destra, dal panno scenografico.
L’identità dell’effigiato è rivelata dall’iscrizione leggibile nella zona in alto a destra.
Giuseppe Alfieri, figlio di Leonardo e di Angela Bianchi, nacque a Varese nel 1592. Probabilmente esercitò la professione medica e nel 1657 dispose che il suo cospicuo patrimonio andasse all’Ospedale di Varese, conservando per sé solo una rendita annua e l’usufrutto di alcune case e terreni. Morì a Milano nel 1669.
Nella sua disamina delle vicende accorse all’assistenza ospedaliera varesina, dalla fondazione borromaica alla fine del Seicento, Angelo Giorgio Ghezzi, ricorda come all’inizio del XVII secolo, siano pervenuti all’Ospedale anche lasciti senza indicazioni particolari che tuttavia contribuirono ad accrescere le disponibilità dell’ente.
Sempre con l’intento di potenziare i servizi assistenziali ed aumentarne il livello di efficienza tecnica, va visto il lascito inter vivos del 1657 con il quale l’Alfieri, canonico di Santo Stefano in Milano, dottore in utroque, vice cancelliere arcivescovile, dettava le sue disposizioni in materia.
Il benefattore esprimeva la volontà che l’ospedale si facesse carico della cura a domicilio degli infermi del borgo e stabiliva, inoltre, il compenso per il medico (al quale dovevano essere corrisposte centoventi lire imperiali) e per il chirurgo (sessanta lire imperiali), che da allora dovevano essere scelti dai deputati, tra i più esperti della città. Nella sostanziale equiparazione seicentesca tra chirurghi, fisici e cerusici, l’atto munifico dell’Alfieri provvedeva l’ospedale «di perito medico, barbiere e di necessarie medicine» e poneva limiti abbastanza rigidi alla farmacopea6. La sua generosa donazione, in tal modo, consentiva finalmente di dare un più stabile ordinamento ai rapporti economici con i medici ed i chirurghi.
Il Borri infine, sostiene che “i due ritratti (…) a mezza figura, pure su tela, del Cardinale Federico Borromeo, che tuttora si conservano nello spedale, uno de’ quali, di sconosciuto, ma buon pennello, quello cioè che rappresenta il prelato seduto, nell’atteggiamento di scrivere, e di cui v’ha uno simile, ma di maggiori dimensioni, nel museo Settala, unito alla pinacoteca dell’Ambrosiana, di Milano, sieno provenuti dall’eredità dell’Alfieri”.
Bagaini8 riprende tale ipotesi, specificando che l’Alfieri era “uno dei confidenti intimi del Cardinale”.
(Ritratto del fisico Giuseppe Broggi - Pittore Gerolamo Daverio Luzzi)
Il pittore Gerolamo Daverio Luzzi descrive con precisione non solo la figura del noto filantropo Giuseppe Broggi, ma anche gli oggetti che richiamano il suo abitus professionale. Veri e propri esempi di virtuosismi pittorici, sono da menzionare il cesto di vimini intrecciati in primo piano e lo scrittoio sovrabbondante di oggetti e libri (tra cui il volome di 'Anatomia esterna'), brani degni di un miniaturista. Interessante anche l’ovale che ritrae, in veste da camera, Domenico Branca, l’ispiratore della beneficenza del fisico Broggi.
Il dipinto, di ragguardevoli dimensioni, è costruito con pennellate libere e corpose che consentono un’efficace caratterizzazione del volto del fisico. Anche per quest’ultimo sono da menzionare certi dettagli – il fazzoletto rosso fuori dalla tasca destra dei pantaloni, il panciotto come aggrottato – che fanno di quest’opera uno degli esemplari più schietti e veri della quadreria del nosocomio cittadino.
Realizzata con notevole minuzia e attenzione ai particolari, la tela si trova in mediocre stato di conservazione, presentando due strappi, cadute di colore localizzate e macchie di spruzzo di vernice non meglio identificata. Nonostante la precaria situazione conservativa, sono da sottolineare la riuscita composizione dell’insieme, nel quale la figura del benefattore campeggia al centro del suo studio. Nato il 17 agosto1753 in Luvinate, da Benedetto e Maddalena De Martini, Giuseppe Broggi compì gli studi di grammatica e di retorica tra Varese e Milano, entrando successivamente nel Collegio Castiglioni di Pavia. Nell’Ateneo di questa città conseguì nel 1781 il titolo di chirurgo e nel 1785 quello di dottore in medicina e filosofia.
Esercitò l’arte medica nell’Ospedale Maggiore del capoluogo lombardo per assumere successivamente l’ufficio di medico condotto in Castiglione Olona. Sposò Rosa Soncini di Bartolomeo, da Bizzozzero e non ebbero figli. Fu tra i primi a diffondere il vaccino anti-vaioloso secondo il decreto del 1804 del Vice-Presidente della Repubblica Italiana, Francesco Melzi d’Eril. Fu sodale, anche nella professione di medico, del dottor Luigi Sacco, varesino, nominato Direttore Generale della vaccinazione del Regno d’Italia. Nel 1841 dettava le sue ultime volontà davanti al fisico Domenico Branca di Milano, chirurgo primario all’Ospedale di Varese, al sacerdote Giovanni Grezzi del distretto di Lugano e cappellano di Gornate Superiore, e a Battista Zambini di Castiglione Olona. Venne sepolto a Castiglione Olona.
Alla morte, il totale del suo patrimonio ammontava a duecentotrentamila lire austriache di cui una buona parte rappresentata da immobili e terreni coltivati distribuiti nei territori di Caronno Corbellaro, Castiglione Olona, Gornate Superiore e Inferiore, Morazzone e Vedano Olona.
Il dipinto, che ritrae il filantropico medico, venne commissionato a Gerolamo Daverio Luzzi di Daverio. Venne portato a termine nel 1844 per novecento lire austriache e con l’approvazione di Luigi Sabatelli, professore di pittura a Brera.
(Ritratto del sacerdote Giuseppe Frontini - Pittore Giovanni Pallavera)
Il sacerdote Giuseppe Frontini è rappresentato all'interno di un ambiente domestico, con accanto un tavolo su cui sono poggiati un crocifisso ed un breviario.
L’esempio dei maestri contemporanei al Pallavera, quali Eliseo Sala (1813 - 1879) e Raffaele Casnedi (1822 - 1892), affiora significativamente nella posa accademizzante del benefattore varesino e nella resa nitida e veritiera del suo volto, così come nella sobrietà cromatica dell’immagine, appena ravvivata da alcuni accenni più vivaci come la tovaglia rossa.
La tela, inedita, documenta con efficacia l’attività scarsamente nota di un pittore che, pur nato a Cremona, si formò e percorse la sua intera carriera di artista a Milano.
Nell’ambito della ritrattistica gratulatoria, Giovanni Pallavera assunse alcuni incarichi per noti istituti assistenziali ambrosiani, come l’Ospedale Maggiore, per il quale eseguì il ritratto del sacerdote Giovanni Rougier e l’Istituto dei Ciechi, che conserva il ritratto di Carolina Rougier.
Ad una piena comprensione della tela esaminata in questa sede, soccorre un’altra opera del Pallavera, oggi in deposito dall’Ospedale di Cremona ai Musei Civici Ala Ponzone2. Si tratta del ritratto della marchesa Antonia Ugolani Dati, benefattrice del nosocomio cremonese.
Degni di nota sono anche l’ambientazione entro cui campeggiano la figura del sacerdote e, nella parte destra del dipinto, l’ovale con la Vergine orante, visibile solo parzialmente, soluzioni compositive adottate anche nelle sopraccitate opere di Milano e di Cremona.
Sebbene risultino scarse le notizie riguardanti l’allocazione del ritratto del varesino Giuseppe Frontini, è possibile che proprio per i meriti acquisiti nel campo della ritrattistica ambientata, e in special modo a servizio della ricca borghesia spesso protagonista di munifici atti di liberalità, il Pallavera sia stato raggiunto a Milano dalla committenza per la tela oggi conservata presso l’Ospedale di Circolo di Varese.
Noto sacerdote varesino, don Giuseppe Frontini, con testamento olografo steso il 6 settembre 1875, istituì eredi universali dei suoi beni immobili i poveri della parrocchia di San Vittore in Varese, affidandone l’amministrazione al suo esecutore testamentario Antonio Morandi.
Il patrimonio immobiliare, secondo quanto ci riferisce il Bagaini, consisteva in una casa in centro città. Sulla facciata, il Frontini, così come si legge nel testamento, ordinava fosse posta “la seguente iscrizione “Beneficenza perpetua dei fratelli Parroco Giuseppe e Gaetano Frontini”. E con ciò – prosegue il documento olografo – non per sentimento d’orgoglio ma solo per tenermi raccomandato alle orazioni almeno di quelli che saranno beneficati… Ciò premesso istituisco e nomino miei eredi perpetui ed universali della mia sostanza immobile cioè del mio caseggiato di San Rocco posto in Varese, Corso Maggiore, i poveri di questa Parrocchia di San Vittore di Varese…”.
I redditi del munifico filantropo dovevano essere erogati per metà a favore del “Novello Ricovero dei poveri” e per l’altra metà in sussidi mensili ai vecchi poveri infermi della parrocchia di San Vittore da distribuirsi dal Prevosto di Varese.
(Ritratto di Giuseppe Pozzi - Pittore lombardo)
L’ovale, in mediocri condizioni conservative, da quanto emerge dall’immagine fotografica, era collocato presso l'Ufficio del Direttore Sanitario, al primo piano di Villa Tamagno (inventario patrimoniale dell’Ospedale stilato nel 1997). È stato rubato nel gennaio 2001.
Non è da escludere, prendendo in esame la sola immagine fotografica, che il dipinto abbia subito pesanti interventi di restauro che hanno manomesso l’aspetto originario del volto del noto benefattore.
Giuseppe Armocida afferma che Giuseppe Pozzi iniziò il suo servizio ospedaliero nel 1768 alla morte di Bernardo Emanuele Ferrari e congiuntamente a Francesco Grossi. Fu confermato nell'incarico in qualità di medico chirurgo maggiore fino al 1774.
Alla fine del Settecento, infatti, troviamo nell’ospedale varesino ancora distinte le competenze di medicina e chirurgia.
Alla morte di Bernardo Emanuele Ferrari, nel 1768, il servizio ospedaliero era stato assunto congiuntamente da due medici varesini, Francesco Grossi e Giuseppe Pozzi, che si impegnavano a dividersi i compiti ed a supplirsi a vicenda quando l’uno o l’altro fosse impedito.
Francesco Grossi fu nominato nel 1753, all’età di 34 anni, protomedico dell’ospedale di Varese e Castellanze. Era stato tra i reggenti del comune nel 1760 e medico di Francesco d’Este, signore di Varese. Nel 1771 Francesco III aveva dettato nuovi capitoli per il servizio medico, raccogliendo segnali di una imperfetta conduzione cui si doveva porre rimedio. Si stabilì allora che Francesco Grossi restasse nel ruolo di medico con il compenso di 300 lire annue, mentre Giuseppe Pozzi era confermato nell’incarico di medico e chirurgo col salario di 200 lire.
(Ritratto di Giuseppina e Achille Cattaneo - Pittore Giuseppe Montanari)
Il dipinto firmato dal pittore Giuseppe Montanari rappresenta i coniugi Giuseppina e Achille Cattaneo all'interno del salotto domestico sullo sfondo del quale si spalanca una veduta di paesaggio.
L’immagine gratulatoria dei Cattaneo appartiene all’attività matura dell’artista nativo di Osimo, quando la sua ricerca si orienta marcatamente verso un uso libero e fantasioso del colore e le pennellate si stendono a campiture nette e contrastanti.
Montanari intende proporre per questo lavoro una lettura in chiave moderna dei canoni Novecentisti: la struttura compositiva imperniata su forme geometriche (si vedano gli schematici contorni dei protagonisti oltre che la scarna ambientazione domestica) e la tessitura cromatica, basata su tinte chiare e squillanti, richiamano, inoltre, la sua attività di frescante, nella quale lo sappiamo attivo per importanti commissioni cittadine.
Volendo istituire dei confronti per ampliare l’orizzonte di comprensione del clima culturale nel quale nacque la tela, è possibile citare l’immagine gratulatoria eseguita in memoria di Angelo Sconfitti, medico e benefattore dell’Ospedale Maggiore di Milano, tela dipinta da Francesco Mezio nel 1961. Comuni alle due opere risultano essere i contorni marcati dei protagonisti, la prevalenza dell’elemento grafico e le spatolate di colore che restituiscono il retrostante paesaggio illuminato da una luce zenitale.
Il dipinto in questione venne commissionato al Montanari, allora residente in Milano, con deliberazione del Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale di Varese in data 28 gennaio 1960 e pagato 600 mila lire2.
Tornando ai benefattori varesini, il Cavaliere del lavoro Achille Cattaneo e Rita Giuseppa Bianchi, detta Giuseppina, furono artefici, grazie al loro cospicuo lascito, della costruzione di uno dei più moderni padiglioni dell’ente ospedaliero cittadino, quello di Gerontologia e cura dei poveri affetti da malattie croniche.
Achille Cattaneo, che nacque a Bergamo l’8 dicembre 1885 e la consorte, che nacque a Varese il 28 maggio 1879, decisero di far edificare ed arredare a proprie spese il nuovissimo padiglione3.
Su suggerimento e con il sostegno del dirigente del servizio di gerontologia e delle malattie croniche, dr. Mario Beretta di Bizzozero, nipote del cavalier Cattaneo, venne presentato il progetto di una moderna e funzionale struttura dei sei piani da intestarsi a “Giuseppina ed Achille Cattaneo”.
Fu proprio il Beretta a perorare la causa, evidenziando la “precarietà del servizio ospedaliero di Varese per quanto riguarda il ricovero dei malati cronici, la loro cura ed assistenza e l’opportunità di provvedere perché l’Ospedale possa anche sviluppare gli studi sulle malattie dell’età matura, in pieno accordo con l’Aministrazione e la Direzione Sanitaria dell’Ospedale”.
A confermare il concerto di volontà esistono alcuni documenti inediti di proprietà dell’Amministrazione dell’Ospedale di Circolo di Varese. In data 4 febbraio 1958, Achille Cattaneo indirizzava una missiva al Commendator Giordano Leva, Presidente dell’Ospedale di Circolo di Varese, nel quale con tono amichevole e confidenziale sottolineava che “a titolo personale e quale Amico, mi hai manifestata la Tua entusiastica approvazione al progetto che mio Nipote, il dott. Mario Beretta, per mio desiderio ed incarico, Ti ha comunicato, e cioè di far costruire e donare all’Ospedale di Circolo un Padiglione di un centinaio di letti, destinato al reparto “cronici” (con eventuale suddivisione a scopo gerontologico) di cui ho sentito, in questi ultimi tempi, vivamente lamentare la mancanza.
Molto sensibile alla Tua manifestazione di apprezzamento e di amicizia, Te ne ringrazio sentitamente e Ti prego di voler senz’altro predisporre una convocazione opportuna, perché dell’opera possano essere poste le basi concrete, affinché il suo realizzo proceda con sollecitudine. Permettimi solo di aggiungere che è desiderio dei miei Famigliari che l’intestazione del padiglione sia «Padiglione Giuseppina e Achille Cattaneo»”6.
I quotidiani dell’epoca celebrarono il nuovo e “grandioso padiglione in costruzione” nel parco Tamagno dell’Ospedale, come una struttura all’avanguardia con “centoventi posti-letto e costruito secondo i più rigidi criteri funzionali e scientifici. Costituirà indubbiamente un’altra posizione di avanguardia per l’Ospedale di Varese”.
E ancora: “La notizia è stata accolta con vivissimo compiacimento, con riconoscenza e con commozione anche a Palazzo Estense, dove il Sindaco Oldrini era da poche ore rientrato dopo il periodo di riposo…”.
Il padiglione, per il quale venne preventivata una spesa in oltre duecento milioni di lire, venne costruito su progetto dell’ingegner Carlo Niada e dell’architetto Franco Niada.
L’inaugurazione si tenne il 17 giugno 1960 a circa due anni dalla donazione con un discorso del Presidente Giordano Leva che, nel ringraziare sentitamente i due benefattori, sottolineava l’importanza sociale di tale costruzione dedicata alla geriatria, scienza che si stava sviluppando in quel periodo. A tale inaugurazione non potè assistere colui che ne era stato il promotore e l’ideatore: Mario Beretta, prematuramente scomparso il 15 dicembre 1959.
(Ritratto di Ignazio Carini con il figlio - Pittore Giovanni Vanini)
Il Ritratto di Ignazio Carini e del figlio si presenta come un dipinto di mediocre qualità, “di maniera” e indubbiamente appesantito nella cromia da un superficiale strato di sporco che appiattisce il gioco chiaroscurale delle figure.
L’effige, attribuita al pittore Giovanni Vanini, di cui ad oggi, scarsissime sono le notizie, ripete stancamente moduli iconografici della ritrattistica ottocentesca, lasciando indefinito tanto l’approfondimento psicologico dell’effigiato quanto l’ambientazione contro la quale si ergono le figure quasi ritagliate nei loro contorni nitidi.
Ignazio Carini nasceva a Cassano d’Adda il primo marzo 1772 da Giuseppe e Marianna Guaitani. Era attuario del Tribunale di Como. Dal suo primo matrimonio aveva avuto un unico figlio, di nome Cesare che gli premoriva adolescente.
Il Carini fissò la sua dimora vicino Varese, dove acquistò alcuni beni a Velate e a Sant’Ambrogio Olona. Scrisse di suo pugno il proprio testamento il 7 febbraio 1848, stabilendo erede usufruttuaria di ogni suo bene la sua domestica Maria Teresa Achini, figlia di Giuseppe e di Maria Antonia Binda, da Velate. Determinava, inoltre, che “alla morte poi della nominata Achini Teresa, nomino erede della sostanza come sopra specificata l’Ospedale Civico di Varese, il quale entrerà in libero possesso della medesima sostanza sotto le condizioni seguenti: sarà fatto inventario della sostanza stabile e mobile e rilevato l’annuale prodotto de’ medesimi fondi siano stabilite quattro doti di lire cento milanesi cadauna da corrispondersi annualmente a quattro giovani povere per occasione del loro matrimonio di del comune di Velate e due del comune di Sant’Ambrogio; se non richieste annualmente le stesse doti, in questo caso voglio che detto Ospitale erede dispensi ripartitamente l’avanzo che sarà per emergere in elemosine a povere famiglie delle suddette comuni di Sant’Ambrogio e di Velate; oltre di che calcolando il prodotto de’ suddetti fondi alla somma di lire 1000. All’anno voglio che detto Ospitale sia in obbligo di ammettere gratuitamente in esso e mantenere un individuo povero ammalato della comune di Velate o Sant’Ambrogio per il tempo necessario al suo ristabilimento”.
Del restante suo patrimonio chiamava eredi i suoi tre nipoti. Nel 1850 sposò Maria Teresa Achini ma un mese dopo morì a Velate.
Morì nel 1848.
(Ritratto di Lodovico Fagetti - Pittore Carlo Cocquio)
La tela firmata da Carlo Cocquio, giunta sino a noi in buono stato conservativo, immortala, stando alla targhetta commemorativa, Luigi Fagetti, sullo sfondo di quello che pare un laboratorio di chimica.
Tuttavia, allo stato attuale degli studi e tenendo conto dei documenti disponibili presso l’amministrazione ospedaliera, non risulta tra i benefattori del XX secolo il nome di Luigi Fagetti.
È citato, invece, un “Dr. Lodovico Fagetti” in memoria del quale risulta che l’amministrazione dell’Ospedale di Circolo commissionò il ritratto al pittore Carlo Cocquio.
In data 24 febbraio 1960, infatti, il segretario generale Dr. Giancarlo Zopegni dava comunicazione alla signorina Carlotta Fagetti di Locate Varesino (Varese) che l’amministrazione dell’ente ospedaliero “volendo ricordare il defunto suo fratello, con un quadro da conservare fra quelli dei Benefattori, ha dato l’incarico al Prof. Cocquio della esecuzione”. A tal proposito, l’amministrazione dell’Ospedale richiedeva alla stessa Carlotta Fagetti una fotografia per agevolare l’opera del pittore.
Nei documenti dell’ente ospedaliero, inoltre, le date delle relative delibere corrispondono a quella riportata sulla cornice della tela: “1960 Pitt. C. Cocquio” e Lodovico Fagetti viene sempre citato come “dottore”, sebbene non venga mai specificato l’ambito professionale nel quale abbia operato.
Se si dà credito ai documenti sopraccitati, bisogna dunque ipotizzare un errore nella targhetta commemorativa apposta sulla cornice del dipinto che invece di riportare il nome di Lodovico ha erroneamente riportato quello di Luigi.
Rispondente alla maniera pittorica immediata del pittore locale Carlo Cocquio, il dipinto celebra il munifico benefattore con un linguaggio piano e semplice, non discostandosi da un altro ritratto realizzato per il nosocomio cittadino e al momento, purtroppo, non rintracciato: quello di Luigi Macchi pagato dall’amministrazione sanitaria al Cocquio 100.000 lire.
Il dipinto qui preso in esame condivide con il sopraccitato, eseguito in memoria di Luigi Macchi, la cromia giocata su tinte acriliche e la condotta schietta, fedele ad una resa fotografica dell’effigiato.
Tornando al benefattore Fagetti, con testamento olografo sottoscritto in data 21 gennaio 1949, egli lasciava i suoi beni immobili siti in Locate Varesino all’Ospedale di Varese, con diritto usufruttuario destinato alla sorella Carlotta. Il valore complessivo dei suddetti immobili ammontava ad oltre 15milioni di lire.
Lodovico Fagetti fu Giuseppe morì a Locate Varesino il 25 febbraio 1956. Il dipinto, secondo gli inediti documenti riferiti e secondo l’ipotesi proposta in queste righe, deve esser stato presumibilmente realizzato quattro anni dopo la scomparsa dell’uomo.
(Ritratto di Lucio Zeni - Pittore Benedetto Rancati)
Conforme alla tipologia ospedaliera in auge fra Sei e Settecento, l’opera presenta il noto benefattore varesino seduto e nell’atto di esibire un documento.
Lucio Zeni, i cui meriti caritatevoli sono ricordati dall’iscrizione commemorativa in alto a sinistra, è abbigliato con veste scura, sulla quale spiccano l’ingombrante gorgiera bianca e il ricco bordo di pelliccia. La minuzia e la scioltezza con cui è reso l’abbigliamento si dissolvono poi nella generica stesura dello sfondo incorniciata dalla consueta pesante cortina di tessuto.
Sorprendono, sebbene l’opera sia stata pesantemente restaurata e rintelata, la resa fisionomica del volto aggrottato e la sodezza della struttura memore della lezione cinquecentesca ed arricchita da un generico recupero della ritrattistica spagnola.
Risultano ancora apprezzabili le sapienti alternanze chiaroscurali e i numerosi passaggi pittorici condotti con disinvolta scioltezza che rimandano ad alcuni confronti con artisti coevi quali Bernardo Ferrari e Baldassere Soldi, attivi nella Quadreria dell’Ospedal Maggiore di Milano.
Il Borri ricorda che “Dello Zeni si ha un ritratto, a mezza figura. È rappresentato vecchio, in un seggiolone a braccioli, con pelliccia e gorgiera, colla mano destra apogiata a un tavolino, e colla sinistra tenente alcune carte. È una copia fatta da Benedetto Rancati, pittore varesino, cui, il 22 novembre 1683, pagavansi sole lire quaranta”.
Se, da una parte, l’autore dell’opera, quel non meglio identificato Benedetto Rancati (forse parente o più verosimilmente confuso con il più noto Antonio Rancati), dovrà senza dubbio essere messo al centro di nuovi studi e ricerche, dall’altra parte la stesura dell’opera si rivela sostanziata da una forte vena naturalistica, da una qualità densa e corposa della tessitura materica, tale da metterla in relazione di “ideale parentela” con il ritratto di Giovanni Giacomo Castaldi, conservato presso il Fatebenefratelli di Milano.
Alla luce dei confronti discussi in queste righe, sembra che l’opera dell’Ospedale di Varese, caratterizzata da un corposo impasto cromatico e da una netta definizione dei contorni si riveli ancora saldamente ancorata ai dettami della ritrattistica Cinquecentesca, richiamandosi alla stesura soda e corposa, di intonazione magniloquente e retorica dei contemporanei ritratti gratulatori della Ca’ Granda.
Tuttavia, una sicura e puntuale attribuzione del ritratto della raccolta varesina, sembra, allo stato attuale delle ricerche, del tutto prematura.
Nel 1623 il banchiere Lucio Zeni originario di Masnago (Varese) ma attivo sulla piazza di Milano lasciava il suo ingente patrimonio all’ente ospedaliero, facendo testamento davanti al notaio milanese Gian Tommaso Besozzi.
Aveva sposato Giulia Lombardi, dalla quale no aveva però avuto figli. Ebbe un figlio naturale, Tommaso che egli legittimò il 28 settembre 1616. Un suo fratello sacerdote, Giacomo Antonio era canonico prebendato della Basilica di San Vittore e protonotaro apostolico.
Lucio Zeni morì a Milano il 19 luglio 1627.
(Ritratto di Luigi Colombo - Pittore Romeo Pellegata)
Eseguito quando il giovane e sfortunato Luigi Colombo era già defunto, il dipinto non dovette almeno all’inizio essere destinato alla Quadreria del nosocomio cittadino, considerato anche il piccolo formato che si distacca dalle comuni committenze gratulatorie e invece accomuna le effigi del padre Pasquale e della madre Fiorina Bossi, per i quali si rimanda alle relative schede.
La suggestione esercitata sul Pellegata dalla studiata tecnica esecutiva propria del Bertini, affiora nella definizione della giovane figura maschile, restituita attraverso una condotta densa e puntigliosa.
Il dipinto, inoltre, risente fortemente della ritrattistica della fine dell’Ottocento ed è costruito con calde tonalità, senza rinunciare tuttavia ad un apprezzabile vigore costruttivo che tratteggia il vivido volto del giovane. A tal proposito, il confronto con alcune opere di Luigi Cavenaghi, come ad esempio il ritratto di Emilio Marzorati (terminato entro la fine del 1908), porta a definire l’immagine di Luigi Colombo come la più tradizionale opera del Pellegata fra quelle del nosocomio varesino.
Per quanto riguarda il riferimento cronologico, bisogna precisare che il ritratto di Luigi Colombo è databile al 1929 (come denuncia la targhetta commemorativa apposta sulla cornice della tela) e dunque è contemporaneo agli altri due dipinti che immortalano i suoi genitori, eseguiti dai pittori Costantino Anselmi e Giuseppe Bertini.
Il dipinto entrò a far parte della raccolta dell’Ospedale di Varese a seguito della scomparsa del fratello di Luigi, il Prof. Alberto Colombo. È il testamento olografo di quest’ultimo a confermarci l’originaria collocazione domestica delle tele: “Lascio l’appartamento di mia proprietà, posto in Milano, Piazza G. Grandi 3, scala II, piano rialzato, con unito giardinetto, all’Ospedale di Circolo di Varese, in memoria dei miei genitori e di mio fratello Luigi, dei quali verranno conservati i ritratti ad olio a mezzo busto a mano dei pittori Guido Bertini di Varese quello di mia madre (Buguggiate di Varese 1853 - 1929), Costantino Anselmi di Milano quello di mio padre (Varese 1854 - 1917), Pellegata quello di mio fratello (Varese 1891 - 1915), morto in combattimento sul monte Sleme in Jugoslavia. Tali quadri si trovano ora nel mio domicilio a Milano e verranno all’uopo passati in proprietà all’Ospedale di Circolo di Varese per essere conservati nella quadreria dell’ospedale stesso”.
(Ritratto dell’architetto Luigi Mattioni - Pittore Ugo Celada da Virgilio)
Il ritratto firmato da Ugo Celada da Virgilio si distingue come uno fra i più importanti della raccolta dell’A.O. Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi e, pur privo del documento di allogazione che permetterebbe di meglio delinearne la datazione, fu probabilmente commissionato all’autore negli anni del suo soggiorno varesino.
Sollecitato da un’ampia committenza altoborghese, di cui egli evidenzia l’appartenenza al ceto sociale mediante una doviziosa e descrittiva raffigurazione dei particolari dell’abbigliamento e dell’ambiente, Ugo Celada da Virgilio rimase ininterrottamente fedele alla sua tecnica realista, quasi fotografica, nella restituzione fedele di ogni minimo dettaglio.
Pur proponendo stilemi e modi che si rifanno ad un rigoroso oggettivismo e a una serrata incisività del disegno, rimane autonomo nei confronti di Novecento e delle sue poetiche, avvicinandosi piuttosto ai modi del Realismo Magico. A questa scelta non è forse aliena una derivazione dall’amico e conterraneo Archimede Bresciani da Gazoldo. La sua maniera pittorica, inoltre, risponde appieno alle istanze del Movimento Pittori Oggettivisti che egli stesso fonda e dirige a partire dal 1959.
L’opera dell’Ospedale di Cittiglio si segnala per l’alta perizia grafica, specialmente nella purezza della linea che rivela non poche tangenze con i ritratti eseguito dal maestro nel medesimo torno di anni (per un confronto si veda il ritratto d’uomo (Il banchiere svizzero), olio su tavola, cm 71 x 60, collezione privata).
Quanto all’effigiato, Luigi Mattioni (Milano 1914 - 1961) si distingue fra i maggiori architetti del Dopoguerra, attivo soprattutto a Milano. Nel capoluogo lombardo ha realizzato circa 200 costruzioni, tra le quali edifici di grande rilevanza quali il Grattacielo di Milano, il Centro Diaz (noto come il palazzo della Terrazza Martini), il Palazzo Omsa e il Centro San Babila. Laureatosi in Architettura nel 1939 con relatore Piero Portaluppi, conseguì il premio come miglior laureato del triennio 1936-1939. Cominciò a lavorare presso lo studio di Giovanni Muzio e nel 1944 fu nominato assistente incaricato nel corso di Elementi di Architettura e Rilievo dei Monumenti del Politecnico di Milano, dedicandosi, inoltre, allo studio dei problemi della prefabbricazione ed unificazione dell’abitazione. Aprì uno studio a Milano, in Piazza Cinque Giornate, occupandosi di costruzioni per l’industria, arredo, allestimenti ed urbanistica. Divenne anche consulente per il piano regolatore della città di Milano con Gaetano Ciocca, Amos Edallo, Augusto Magnaghi e Mario Terzaghi. Allo stato attuale è in corso da parte della scrivente un’indagine tra le carte del Fondo Mattioni (Milano).
(Ritratto di Luigi Redaelli - Pittore Federico Gariboldi)
Rispetto ai primi esempi di ritrattistica di filantropi varesini, il pittore Federico Gariboldi perviene in quest’opera ad accenti di maggiore sincerità e libertà nella stesura pittorica e nella caratterizzazione del benefattore, liberamente inserito sullo sfondo di un paesaggio prealpino.
La stessa posa di Luigi Redaelli, colloquiale, anticelebrativa, quasi da istantanea fotografica, si libera finalmente da certe durezze e rigidità di opere più acerbe del maestro nativo di Genova che, in questo torno di anni, si affianca stilisticamente agli esempi coevi di autori presenti nel panorama milanese come Lino Baccarini (Gonzaga (MA) 1893 – Milano 1970) e Giuseppe Amisani (Mede Lomellina (PV) 1881 – Portofino (GE) 1941).
Come nel ritratto di Angelo Macchi, così nel dipinto qui preso in esame, si nota infatti un maturo equilibrio tra la figura dell’effigiato, sbalzata con nettezza, ed il paesaggio digradante verso un cielo solcato da nubi ed appena evocato da tinte acquerellate.
Originario della Brianza ma varesino di nascita, Luigi Redaelli portò avanti l’industria paterna nel settore della selezione e preparazione del seme dei bachi. Durante la guerra, perse il giovane figlio Carletto, ritratto in un dipinto firmato da Giuseppe Montanari, pure presente nella quadreria del nosocomio varesino.
Luigi Redaelli morì il 9 settembre 1929 e nelle sue disposizioni testamentarie lasciava erede l’Ospedale civico di una parte assai cospicua del suo patrimonio.
(Ritratto del cav. Ing. Luigi Riva - Pittore Federico Gariboldi)
L’effige del munifico testatore, seduto all’interno di un ambiente domestico, reso con accentuato realismo, resta ben lontana dalla freddezza di un ritratto ufficiale.
Tuttavia, l’opera, realizzata l’anno dopo la morte del benefattore e tenuta in discreto stato conservativo, rivela una concezione compositiva convenzionale e riecheggia, per impostazione ed esecuzione tecnica, la maniera soffusa di Giuseppe Bertini e di Cesare Tallone.
Di quest’ultimo è qui utile proporre il confronto con il ritratto di Giovanni Morandi che fornisce, assieme ad altri esemplari di autorevoli comprimari attivi sulla scena milanese, quali Alessandro Vanotti (1852 - 1916) e Stefano Bersani (1872 - 1914), un modello standard per la resa dei benefattori, che verrà replicato passivamente in infiniti modelli convenzionali.
Il dipinto qui preso in considerazione, caratterizzato da tonalità soffuse, valorizzate da piccoli e sfumati tocchi impressionistici, si spalanca, sulla sinistra, su una vista panoramica della città di Varese che richiama il legame e gli incarichi civici ricoperti dal Riva.
Tra i meriti per i quali viene ricordato quest’ultimo, figura quello di essere stato amministratore del Santuario di Santa Maria del Monte e di essersi prodigato per alcuni interventi di restauro nell’antico borgo.
Tra i cittadini più notabili della città, Luigi Riva, inoltre, viene citato dal Bagaini quale “Ingegnere capo del Comune (…). Appassionato cultore dell’arte, tenne con grande diligenza l’ufficio di R. Ispettore per gli scavi e monumenti e si deve a lui se molti e preziosi cimeli non andarono distrutti”.
Morì il 25 aprile 1924 e con testamento olografo disponeva il lascito di 7.125 lire all’Ospedale Civico, 18.750 alla Casa di Riposo e 16.500 lire all’Orfanotrofio Femminile.
(Ritratto di Luigi Sommaruga - Pittore Guido Bertini)
Il riferimento al pittore Guido Bertini trova ragione nell’immediata schiettezza e nell’intonazione spontanea del ritratto del giovane Luigi Sommaruga, accostabile, nello stile, alle altre tele realizzate per l’Ospedale di Circolo e firmate dall’autore morto a Luvinate. L’abbigliamento contemporaneo e quotidiano del protagonista, infatti, così come il riflesso nello specchio e nelle cornici dorate animano anche il ritratto di Angelo Cattini.
La cifra stilistica tipica del Bertini, inoltre, è ravvisabile nell’ambientazione domestica ed elegante contro cui si staglia la figura del personaggio, nell’esecuzione delicata del volto, che scongiura il senso di staticità, sempre in agguato nel caso dei ritratti gratulatori.
Il dipinto è necessariamente da ascriversi entro il 1938, data di morte del pittore e dunque eseguito quando il Sommaruga era ancora in vita.
Come già indagato da Serena Contini, tra gli anni Quaranta e Cinquanta si realizza l’opera di liberalità dei coniugi Enrico Sommaruga e Bice Zanzi, che in ben due occasioni beneficiarono l’ospedale varesino. Una prima donazione fu effettuata a metà degli anni Quaranta del Novecento, in favore del laboratorio dell’Ospedale intitolato al figlio Luigi prematuramente scomparso nel 1942; una seconda in memoria della figlia Rachele - scomparsa nel 1955 - destinata a completare la dotazione del laboratorio ospedaliero in seguito trasferito nel nuovo padiglione pediatrico Dansi, ultimato nel 1953 e dove fu posta una lapide a memoria del lascito che recita: “IN MEMORIA DELLA/ DOTT. NENE SOMMARUGA IN STERNAI/ DILETTA SORELLA DI LUIGI/ I GENITORI CON RINNOVATA GENEROSITA' HANNO/ COMPLETATE LE DOTAZIONI STRUMENTALI DI QUESTO/ LABORATORIO PER AGGIORNARLO IN RISPONDENZA AI/ PROGRESSI SCIENTIFICI ED ALLA PIENA EFFICIENZA/ DE SERVIZI OSPEDALIERI/ MAGGIO 1955”.
(Ritratto del commendatore Luigi Testoni - Pittore Romeo Pellegata)
L’artista Romeo Pellegata imposta il dipinto su schemi iconografici consueti, ambientando il benefattore in un angolo di salotto. La discreta qualità formale dell’opera del Pellegata è supportata da una minuziosa e levigata stesura di colore e da qualche rialzo cromatico che ben si accordano con le altre effigi realizzate dal pittore milanese eseguite per il nosocomio varesino.
Sebbene il taglio compositivo risulti estremamente essenziale e fornisca ben pochi elementi di confronto e verifica stilistici, l’immagine che ritrae il commendator Testoni si dimostra interessante per il riuscito gioco chiaroscurale e la fedele fedeltà al dato reale.
Commerciante e d’origine varesina, Luigi Testoni nacque il 20 maggio 1858. Si trasferì ben presto a Buenos Aires dove studiò economia e commercio e dove risiedette per qualche tempo.
Fu proprietario della ditta di importazione e trasporto “Galileo”, situata a Varese, in via Alsina 61.
Bagaini ricorda che gli eredi di Luigi Testoni, generoso benefattore in particolar modo a favore dell’Ospedale Civico al quale nel 1923 donava la somma di 8000 Lire, versarono 12.500 Lire all’Ospedale, 1000 alla Congregazione di Carità e 1000 alla Casa di Riposo, per onorare la memoria del loro caro estinto. Sempre Bagaini ricorda la vedova Testoni ancora in vita, essere solita beneficiare largamente gli Istituti Pii di Varese.
(Ritratto di Luigia Della Concezione vedova Sanvito - Pittore Pietro Bouvier)
La memoria del modello fotografico affiora con grande evidenza non solo nella posa della benefattrice ma pure nella resa nitida e veritiera del suo volto.
Per tale stesura sottile e irreprensibile in quanto a fedeltà fisionomica, il pittore Pietro Bouvier si dimostra debitore nei confronti di Hayez e Casnedi dei quali era stato allievo negli anni della formazione braidense. Dall’esempio dei maestri dipende anche la sobrietà cromatica dell’immagine, appena ravvivata da alcuni accenni dorati della tovaglia damascata e della cornice posta sul tavolino, che ritrae il defunto consorte. Degni di nota sono anche l’ambientazione entro cui campeggia la vedova Sanvito, il pavimento policromo e i pesanti drappi di velluto scuro sullo sfondo della tela.
Ad una più approfondita comprensione della tela, soccorrono alcuni confronti con opere dello stesso autore, pure eseguite per la committenza varesina, come il ritratto di Antonietta Comolli Piccinelli (1889) e il ritratto di Erminia Antonini Daverio (1907) pure presso l’Ospedale di Circolo, dove ancora si dispiega l’acribia del Bouvier nella descrizione dei dettagli e nella resa delle eleganti vesti borghesi.
Diverse sono le citazioni del Bouvier tratte dalla pittura dei contemporanei Paolo Sala (Milano 1859-1924) e Luigi Napoleone Grady nativo del pavese (Santa Cristina, 1860), attivo a Milano (un ritratto firmato si conserva alla Ca’ Granda) e morto a Brusimpiano (Varese) nel 1949.
Il dipinto dell’Ospedale di Varese ritrae Luigia Francesca Maria Della Concezione, nata da padre ignoto e da un’artista di strada nel 1819 a Barcellona, in Spagna. In tenera età fu trasferita in Italia, abbandonata ed in seguito adottata da una vedova di Lodi che, per avverse situazioni, lasciò la sua città per Milano, dove divenne portinaia presso la famiglia Sanvito.
A sua volta, nel 1859 Luigia fu assunta come cameriera dal padrone di casa, Silvestro Sanvito (1798-1881) proprietario, nella Castellanza di Casbeno di Varese, dell’antica villa detta “La Quiete”.
Al 1863 risale il matrimonio con l'anziano Silvestro Sanvito, con il quale Luigia visse presso la bella villa di Casbeno. Qui il marito morì il 18 marzo 1881, dopo aver nominato erede universale dei suoi beni la moglie Luigia.
Non avendo discendenza diretta, il 6 novembre 1887 Luigia Della Concezione testava a favore di Gian Battista Sanvito, nipote di Silvestro. Essendo tuttavia quest’ultimo deceduto ancora celibe il 27 giugno 1889, il primo dicembre successivo la vedova designò erede l’amico di famiglia Gian Battista Bonazzola.
Luigia Della Concezione morì il 4 settembre 1897 beneficando con legati anche l'ospedale varesino, con l’indicazione di assicurare in permanenza l’assistenza sanitaria a tre infermi poveri residenti nel Comune di Malnate, dando la precedenza ai coloni delle terre dei Sanvito ubicate nelle località Rovera e Monte Morone. Il suo ritratto, realizzato a figura intera dal pittore milanese Pietro Bouvier, venne commissionato per la somma di millenovecento lire.
(Ritratto di Suor Maria Virginia Staurenghi - Pittore Giovanni Fangazio)
Caratterizzato da tinte ribassate, il ritratto della celebre religiosa, alla cui memoria è intestata una delle vie centrali di Varese, è completamente immerso nella penombra. Sullo sfondo di un vasto dipinto, che pare identificabile con il matrimonio mistico di Santa Caterina, suor Marianna Florinda Staurenghi (al secolo Virginia) è effigiata seduta, dinanzi ad un inginocchiatoio, di fronte al quale è visibile la parte inferiore di un grande crocifisso.
Purtroppo ad oggi non è possibile esaminare dal vivo il dipinto, dal momento che quest’ultimo si trova, dal 1981, in deposito presso la zona riservata alle monache di clausura del monastero del Sacro Monte di Varese. Tuttavia, dall’immagine fotografica gentilmente concessa dalle monache, sono apprezzabili la composizione spoglia ed austera e le tinte cineree con le quali viene tratteggiato il volto della suora.
Il dipinto pare non essere immune dall’esempio di Francesco Hayez o di Pelagio Pelagi entrambi attivi nell’ambito della ritrattistica gratulatoria di benefattori dell’Ospedal Maggiore di Milano.
Tornano utili, a tal proposito, i riferimenti al ritratto di Francesco Bossi di Pelagio Pelagi e il ritratto di Carlo Calvi commissionato all’Hayez dal nosocomio milanese per la mediazione del Pelagi.
Per l’immagine in memoria di Suor Maria Virginia Staurenghi, Fangazio sembra ricalcare un modello comune alle quadrerie degli enti ospedalieri lombardi, drammatizzandolo mediante l’azione del forte chiaroscuro che si concentra sul volto della religiosa.
Comune con le opere sopraccitate è anche l’atmosfera ombrosa dove l’impostazione “di parata”, tanto spesso presente nei ritratti commemorativi, viene sostituita da una ricerca di intimismo e di raccoglimento.
Purtroppo ancora molto approssimativo risulta ad oggi il profilo biografico del pittore che sappiamo originario di Mezzana Mortigliengo, in provincia di Novara e domiciliato a Varese, intorno al principio del XX secolo, in Via Vellone 53. Conviene aggiungere, inoltre che, stando a quanto segnalano le fonti, a cominciare dai cataloghi delle esposizioni annuali indette a Brera, sembra che egli si sia prevalentemente concentrato nell’ambito della ritrattistica, interpretando con trattenuto rigore quella “correttezza” molto apprezzata dalla critica tradizionale.
La più remota testimonianza riguardante il dipinto in esame ci è data dal Borri che cita Giovanni Fangazio come esecutore dell’effige commemorativa, lamentando una disattenzione iconografica da parte del pittore che: “per difficoltà assoluta, vuolsi, di aver vesti di monache Agostiniane, (…) la rappresentava in un abito dissimile alquanto dall’usato, specie nel soggolo di bianco lino, il quale anziché girar breve con salda intorno al mento solo, siccome è voluto dalla regola, copre, invece, tuta la gola, e scende sul petto, a guisa di quello delle monache Teresiane, e Orsoline”.
Dai documenti inediti conservati presso gli uffici dell’azienda sanitaria, si evince che il 17 gennaio 1981 la badessa Suor Maria Bernarda Comelli del Monastero delle Romite Ambrosiane di Santa Maria del Monte, faceva richiesta all’Ospedale di Varese di concessione del ritratto della Staurenghi6. Richiesta che veniva accolta e sottoscritta dal Consiglio di Amministrazione del nosocomio il 2 febbraio 1981, consegnando l’opera del pittore Fangazio in deposito a titolo fiduciario alle Romite.
La richiesta, avanzata dal monastero del Sacro Monte, vede tra le motivazioni principali il ruolo chiave ricoperto da suor Marianna Florinda Staurenghi soprattutto durante le soppressioni della Repubblica Cisalpina.
Di nobile famiglia briantea, Marianna Florinda (al secolo Virginia) Staurenghi nacque il 25 agosto 1757 a Proserpio, in Pieve d’Incino, da Pier Francesco e Fiorina Annoni.
Aveva tre sorelle e un fratello: Giuditta, che assunse il nome di suor Maria Florina quando divenne monaca a Lambrugo in Brianza e che, in seguito alla soppressione del suo monastero, giunse a Santa Maria nel 1814; Leopoldo; Marcellina e Petronilla, coniugate.
Entrò in comunità il 2 febbraio 1870 ed emise la professione religiosa l’8 febbraio 1782, con il nome di suor Marianna Florinda.
Fu ‘governatrice’ del monastero a partire dal 12 agosto 1801 e durante il periodo della soppressione e principale fautrice del ripristino del sacro luogo, di cui fu poi abbadessa per circa dieci anni, fino alla sua morte avvenuta l’8 marzo 1832, a 74 anni d’età e 52 di vita monastica.
Tra i documenti recentemente pubblicati riguardanti la Storia del Sacro Monte di Varese, il “Chronicon” la ricorda così: “Donna di gran zelo, virtù e talento, che si può dire con verità una seconda Fondatrice, per avere operato tanto colla mano, con la voce, e con la penna, sino ad ottenere da sua Maestà la Ripristinazione del Monastero. E con la sua morte ha recato gran dolore a tutte le sue Dilette Figlie da cui era tanto amata”.
Negli anni ’70 del XVIII secolo e ancor di più nei primi due decenni del successivo, il Monastero delle Romite vide ridursi i legati a favore delle religiose, negato il permesso di questua, diminuite le vocazioni e almeno una spoliazione documentata da un verbale datato 27 gennaio (8 piovoso) 1797: in ottemperanza all’ordine emanato il 25 ottobre (4 brumaio) 1796 dal generale in capo Bonaparte, l’abbadessa Suor Maria Crocifissa Trecati dovette consegnare alle autorità civili ori e argenti di proprietà del monastero e del santuario del Sacro Monte.
È datato 21 novembre 1798 il documentato “fattal colpo”, ossia l’ordine imposto dal Direttorio della Repubblica Cisalpina di soppressione del Monastero, lasciato, per chi voleva abitarlo, alle monache che avevano tollerato “grandi strettezze, insulti, e persecuzioni, avendo per governatrice la Staurenghi”.
Dunque, secondo quanto tramanda ancora il “Chronicon”, un ristretto gruppo di monache non abbandonò il monastero individuando in Suor Marianna Florinda Staurenghi un riferimento fondamentale.
Sebbene non fosse ufficialmente abbadessa in quegli anni, risultano documentate parecchie iniziative intraprese da questa monaca che, con determinazione, seppe ottenere a favore del monastero significative concessioni dalle autorità civili, avvalendosi certamente anche del consiglio di importanti personalità d’ambito ecclesiastico e della proficua mediazione di laici amici della comunità.
Già a partire dal 1796 la Staurenghi sostenne una vertenza con il regio governo per la proprietà dei reliquiari esistenti in santuario. Sua è la firma apposta in calce a numerose suppliche e relazioni, inviate ad altrettanti uffici amministrativi ed ai responsabili di governo succedutisi tra il 1798 ed il 1816.
Sul versante del rapporto con gli ecclesiastici la Staurenghi, oltre che con le autorità della diocesi ambrosiana, intrattenne una corrispondenza con il teologo e cardinale Lorenzo Litta, quando questi svolgeva il suo ministero a Roma.
Del 1816 è la prima supplica a Francesco I sempre a firma di suor Marianna Florinda Staurenghi che segnalava la presenza in comunità di venti religiose. Il 7 luglio 1818 il governo dell’impero emanò un dispaccio circolare, diretto agli ordinari diocesani circa il ripristino di alcuni istituti religiosi soppressi: il comunicato riportava letteralmente gli ordini emanati con un dispaccio governativo del 31 maggio 1818.
Il 5 febbraio del 1821 le religiose del monastero la designarono nuova abbadessa del rinato monastero, quasi una “seconda fondatrice”. Suor Staurenghi, del resto, conserverà tale incarico, riconfermata per altre due volte nelle elezioni del 1825 e del 1831, fino alla morte che la colse, come è stato ricordato all’inizio, il 28 marzo 1832.
(Ritratto di suor Maria Vittoria Pozzi - Pittore lombardo)
Al fine di ricostruire il legame – artistico e storico – intercorrente tra le due effigiate, le due tele vengono presentate contigue.
Dalle medesime misure, queste rivelano una maniera sobria, compassata, sebbene il taglio compositivo risulti estremamente essenziale e fornisca ben pochi elementi stilistici di confronto e di verifica.
Le due effigi, caratterizzate da qualche scarto qualitativo, si dimostrano interessanti più per il rimando alla biografia delle monache che per le caratteristiche stilistiche ed iconografiche che rientrano nell’alveo delle tipologie di ritratti di religiosi, eseguiti da anonimi pittori lombardi.
I dipinti documentano in modo esplicito l’assoluta impermeabilità ai modelli della ritrattistica della metà del XVIII secolo e l’attardarsi su stilemi replicati in modo insistente nelle effigi aventi per soggetto uomini e donne religiose, che trovano quasi sempre la loro realizzazione all’interno delle mura degli enti ed istituti religiosi.
Allo stato attuale delle ricerche, infatti, si può affermare che le due tele siano state presumibilmente realizzate all’interno del monastero dove vissero le due donne e forse donate all’ente ospedaliero varesino nel 1790 in occasione della morte della sorella Maria Teresa Pozzi che destinava i suoi beni all’Ospedale di Varese.
A tal proposito il Borri, tratteggiando il profilo di Maria Teresa, ricorda che ella nacque il primo settembre 1741 e che fu “ultima di sette figli di Giuseppe, medico e chirurgo dello spedale, e di Giuliana Molina”. Del padre, noto studioso ed erudito in materie scientifiche, si conservava il ritratto nella quadreria del nosocomio cittadino (Inv. n. 3; il dipinto è stato rubato nel 2001) a testimonianza del fatto che nei secoli la storia della liberalità ospedaliera è stata incarnata da intere famiglie che, con munifici lasciti, hanno perpetuato nei decenni il ricordo del proprio nome.
Prosegue il Borri a proposito di Maria Teresa Pozzi: “Della sua famiglia le erano rimasti: un unico fratello, Paolo Antonio Andrea, che, entrato nell’ordine francescano de’ Cappuccini, ordinato sacerdote, chiamato padre Luigi Maria da Varese, era creato poi, nel 1798, cappellano dello spedale, morendo, con tale ufficio, al 21 marzo 1801, di sessantatré anni; e due sorelle maggiori, l’una, Maria Giovanna Maddalena, fattasi monaca Cappuccina, col nome di Maria Vittoria, nel monastero di Santa Barbara in Milano, e, questo abolito nel 1782, passata poi al governo dell’Infermeria di San Bernardino; e l’altra, Isabella, pur monaca Cappuccina, col nome di Maria Gertrude, nel convento di Santa Maria degli Angeli, parimenti cessato in quell’anno, e poi di San Filippo Neri, in Milano stesso. Di entrambe queste ultime si hanno allo spedale ritratti, che recano la data del 10 settembre 1753, e del 4 settembre 1755.
Il 7 gennaio 1779 perdeva il genitore. Nel 1781, ereditava il tenue patrimonio di suo zio, sacerdote Domenico Pozzi, canonico prebendato del Capitolo di San Vittore. Il 5 aprile 1790, perdeva anco la madre, infermatasi nella casa de’ propri fratelli, Anton Vittore e Luigi Molina, dottor fisico, dove essa medesima, per le amorose e assidue cure prodigate alla genitrice, e per le patite angoscie, cadeva tosto dopo malata. Sentendo, che il suo male si andava rapidamente aggravando, faceva, il 7 aprile 1790, il proprio testamento nuncupativo implicito, scritto dal nobil uomo signor Francesco Maria Castiglioni, e consegnato, il giorno appresso, al dottor Giuseppe Baroffio, notaio varesino (…) della benefattrice si possiede un ritratto, di sconosciuto autore, che la rappresenta a mezza figura, nella foggia di vestire del suo tempo, con bianca cuffia di pizzi e gale, colla sinistra mano tenendo un ventaglio chiuso, e mostrando, colla destra sollevata, due carte ripiegate, cioè, forse, il testamento e il codicillo”.
(Ritratto di Paolo Bianchi - Pittore Romeo Pellegata)
Rinunciando a più ricercate ambientazioni d’interni, già sperimentate con successo nel prezioso ritratto del barone Leonino e nel ritratto di Carlo Sonzini, pure conservati presso il nosocomio varesino, il Pellegata sceglie di raffigurare il benefattore Paolo Bianchi all’aperto, contro un paesaggio che dalla catena alpina del Monte Rosa e del Sacro Monte, digrada fino alle rive del lago. È evidente, nella tela, la scelta dell’autore di rendere verosimile la presentazione del proprio soggetto, colto senza alcun paludamento, con il soprabito sbrigativamente arrotolato al braccio, in controluce su una terrazza assolata che dà sulla veduta della città.
L’immagine gratulatoria, risalente all’epoca della donazione, ovverosia due anni prima della morte di Paolo Bianchi avvenuta nel 1929, fonde, in un’armonia cromatica schiarita, l’arioso paesaggio e il benefattore.
Tale è l’efficacia di quest’immagine, costruita con esplicito naturalismo e rapida stesura pittorica, da richiamare alla mente alcuni modelli diffusi nella coeva produzione ritrattistica, come bene può illustrare il confronto con uno dei più alti esiti dell’opera di Luigi De Servi (Lucca 1863 – 1945), figlio d’arte, presente in diverse rassegne a Roma e a Milano e “pittore emblematico dell’epoca del salotto e della committenza borghese, dei cicli di famiglia e del ritratto di illustri”. Il riferimento corre al ritratto di figura maschile firmato a datato 1908, in felice equilibrio tra resa atmosferica e messa a fuoco del soggetto.
Sebbene non si possa istituire alcun rapporto di derivazione né di parentela con il ritratto della raccolta varesina, il richiamo alla produzione di Luigi De Servi pare utile a ribadire i caratteri distintivi ed il maturo linguaggio artistico di una delle opere di miglior livello del Pellegata.
Quanto all’effigiato, Paolo Bianchi, fu Angelo, nato nell’allora Comune di Santa Maria del Monte3, era membro di una famiglia varesina che gestì una delle più importanti fonderie artistiche italiane, situata a Varese, in via Morosini 17. Le fortunate vicende dell’azienda familiare “Fonderia Angelo Bianchi e Figli” condussero all’assegnazione del gran premio all’Esposizione internazionale delle Industrie e del Lavoro di Torino del 1911.
È datato 16 aprile 1927 l’atto di donazione rogato dal notaio Ferdinando Torneamenti di Malnate, con cui Paolo Bianchi donava la propria abitazione sita in via Sacro Monte al civico 36 alla Congregazione di Carità di Sant’Ambrogio Olona, unitamente ad alcuni locali coerenti per un valore di 20mila lire allo scopo di costituire borse di studio per giovani benemeriti non abbienti e per beneficare l’Asilo Infantile della località sita alle pendici del Sacro Monte.
(Ritratto di Pasquale Colombo - Pittore Costantino Anselmi)
Il dipinto, per la cui esecuzione venne ingaggiato il pittore milanese Costantino Anselmi, molto attivo anche in terra varesina, risente per il taglio compositivo, dell’esempio della contemporanea ritrattistica di Ambrogio Alciati.
L’effigie della raccolta varesina è costruita con una gamma cromatica sobria e con pennellate corpose che si soffermano a descrivere, con un’impronta accademica, i tratti del viso e l’intensità dello sguardo del benefattore.
Questi è presumibilmente da individuare in Pasquale Colombo, tenuto conto degli indizi presenti nell’inventario del 1968 della “Pinacoteca dell’Ospedale di Circolo di Varese” dove ai numeri 149, 150 e 151 compaiono rispettivamente tre dipinti segnalati come: “Colombo (padre)”, “Colombo (fratello)”, “Colombo (madre)” ed eseguiti rispettivamente da C. Anselmi, R. Pellegata e G. Bertini.
È evidente il riferimento ai genitori e al fratello di Alberto Colombo, anch’egli annoverato tra i benefattori dell’Ospedale di Varese e per il cui ritratto si rimanda alla scheda relativa.
Con testamento olografo, infatti, Alberto Colombo legò all’Ospedale anche i “ritratti ad olio a mezzo busto a mano dei pittori Guido Bertini di Varese quello di mia madre (Buguggiate di Varese 1853 - 1929), Costantino Anselmi di Milano quello di mio padre (Varese 1854 - 1917), Pellegata quello di mio fratello (Varese 1891 - 1915), morto in combattimento sul monte Sleme in Jugoslavia”.
Per la datazione del ritratto di Pasquale Colombo occorre dunque prestar fede all’iscrizione visibile sul retro del dipinto, ipotizzando che sia stato commissionato all’Anselmi oltre dieci anni dopo la morte dell’effigiato (1917) e che sia stato ricavato da un’immagine fotografica.
Proprio al 1929, quando il Pellegata eseguiva il ritratto del più giovane e sfortunato Luigi Colombo e il Bertini metteva mano alla tela che avrebbe immortalato Fiorina Bossi vedova Colombo, potrebbe risalire la committenza all’Anselmi per l’opera qui presa in esame.
C’è da aggiungere che i tre dipinti hanno le medesime misure e ritraggono i familiari in primo piano, secondo la stessa composizione.
Anche alla luce di queste precisazioni, il ritratto inedito di Pasquale Colombo, viene a porsi come un interessante contributo alla conoscenza dei benefattori attivi a favore del nosocomio cittadino.
La datazione del dipinto al 1929, infine, meglio combacia con il profilo biografico ed artistico dell’autore che all’epoca aveva 24 anni e che aveva maturato la propria formazione in pittura e disegno presso l’Accademia di Brera.
(Ritratto di Pier Ambrogio Mera - Pittore Carlo Cocquio)
La tela rappresenta il canonico Pier Ambrogio Mera seduto al proprio studio, intento alla stesura di un documento testamentario. Sulla scrivania spiccato il nero cappello da prelato, un piccolo crocifisso e una brocca piena d'acqua.
Il dipinto è una copia tratta dal pittore Giuseppe Colombo, eseguita da Carlo Cocquio, in sostituzione della prima tela danneggiata in modo irreparabile e presumibilmente eseguita a ridosso della morte del noto benefattore varesino.
Sebbene l’opera cerchi di riprodurre con una certa fedeltà la maniera nitida e precisa, tipica del Colombo (artista dai lineamenti biografici pressoché ignoti, ma presente con altri ritratti nella quadreria del nosocomio), il dipinto in questione dimostra caratteristiche estranee alla pittura di fine ‘800 – inizio ‘900 e, invece, rientranti pienamente nella conduzione artistica del Cocquio intorno agli anni Sessanta.
Un’insistente descrizione dei tratti del volto e degli oggetti posati sulla scrivania, nonché certi impasti cromatici dalle tonalità sintetiche avvicinano la tela al ritratto della vedova Zamboni, piuttosto che alle opere accademiche e calibrate del Colombo.
Menzionato già nel 1963, in un documento rinvenuto nelle carte d’archivio dell’Amministrazione Ospedaliera, il dipinto è stato probabilmente eseguito al termine degli anni Cinquanta o nei primissimi del decennio successivo, in un momento in cui risultano frequenti committenze da parte dell’ente ospedaliero al pittore Carlo Cocquio di Cantello.
Proprio nel 1963, in occasione di un sopralluogo presso l’Ospedale di Circolo, per conto della Soprintendenza di Milano, venivano espressi non pochi dubbi circa la sostituzione del ritratto di Pier Ambrogio Mera eseguito dal pittore Giuseppe Colombo, con “una copia alquanto libera e di fattura evidentemente recente”.
In risposta alla richiesta di maggiori dettagli, inoltrata dal sovrintendente G. A. Dell’Acqua, l’allora Presidente dell’Ospedale di Varese, Giordano Leva precisava che il quadro del Colombo “ebbe a rovinarsi in modo tale da non poter essere riparato, portando la precedente Amministrazione alla decisione di farne eseguire una copia dal Pittore Cocquio di Varese”.
Quanto al munifico effigiato, Pier Ambrogio Mera, figlio di Carlo Giuseppe e Giovanna Corti, nacque a Varese il 30 giugno 1801. Ordinato sacerdote nel 1825, venne nominato, due anni dopo, coadiutore titolare della chiesa Prepositurale Plebana di Santo Stefano di Appiano, dove sarebbe rimasto sino al 1837.
Ebbe, secondo la ricostruzione storica del Borri, qualche contrasto con il governo austriaco per aver facilitato e ospitato alcuni affiliati alla “Giovane Italia”. La pena inflittagli venne commutata in coatto soggiorno a Venezia, dove divenne cappellano della parrocchia di San Marziale.
Graziato nel 1843, venne riammesso nella Diocesi milanese ed entrò a Varese al tempo del Prevosto varesino Benedetto Crespi. Passò poi ad Arcisate nel 1844 come coadiutore titolare della chiesa Prepositurale Plebana. Dopo la morte di un suo congiunto, pure sacerdote, assunse l’ufficio di Canonico Teologo presso la Basilica di San Vittore di Varese nel 1855.
Il 30 agosto 1880, stese di suo pugno il testamento, nel quale chiamava suoi eredi “i poveri della città di Varese, e per essi la onorevole Congregazione di Carità che per legge li rappresenta”, volendo che il suo patrimonio fosse destinato alla fondazione di un’Opera Pia intitolata a suo nome.
Morì il 2 luglio 1881 disponendo un legato di Lire 150mila per la istituzione dell’Opera Pia Mera.
Il Borri, infine, fa riferimento ad un ritratto del canonico Mera eseguito nel 1884 da “Giuseppe Colombo da Canzo, stanziato a Varese” che “costò ottocento lire”.
Il riferimento è alla prima versione dell’immagine gratulatoria, sostituita, meno di un secolo dopo, dall’attuale tela del Cocquio. L’aspetto della prima opera doveva essere davvero molto vicino alla più recente, dal momento che il Borri specifica che il sacerdote “è atteggiato come nel momento in cui, seduto sopra un vecchio seggiolone a braccioli, sta pensando alle disposizioni da fissare nel proprio testamento, che va componendo sopra una scrivania, sulla quale spicca un crocifisso di avorio”.
(Ritratto di prelato con cappa bianca - Pittore lombardo)
Ignorato dalla letteratura critica e da tutte le fonti storiche che hanno trattato la storia dell’Ospedale di Varese, il dipinto risulta inedito e sconosciuta è pure l’identità dell’effigiato.
L’ovale, rintelato in un recente intervento di restauro, risulta a tutt’oggi in mediocri condizioni conservative, presentando cadute di colore lungo il contorno e un generale abbassamento dei valori cromatici a causa di una patina coprente di sporco.
Tuttavia, una raffinata tecnica esecutiva affiora con evidenza nella definizione della cappa bianca del prelato, nella serica mantellina coprispalle e nel frusciante orlo ricamato della veste, restituiti con una stesura sciolta e luminosa, impreziosita da vivaci rialzi cromatici. Una convincente condotta pastosa, invece, contraddistingue la resa del volto del personaggio concentrato e sostenuto.
Pure è ravvisabile nell’opera qui considerata, un certo gusto per il dettaglio dell’abbigliamento, una decisa maestria e scioltezza di conduzione per il panneggio mosso e vaporoso, forse sulla scia – ma assestato su un tono meno aulico – del pittore Giorgio Durante (1685 - 1755) del quale ricordiamo il ritratto del cardinale e giureconsulto Bernardino Scotti conservato presso la Ca’ Granda.
In una chiave meno solenne e monumentale, il nostro anonimo autore sembra rifarsi ai ritratti eseguiti tra gli anni venti e trenta del XVIII secolo, coniugando la lontana e ben più elevata eredità di Bartolomeo Nazari e del Bombelli.
Nonostante la penuria di dati storici in nostro possesso induca alla cautela, sembra possibile poter avanzare in questa sede qualche ulteriore parallelo con l’opera pittorica di Salvatore Bianchi (1653 - 1727) che sappiamo attivo nei primi anni del XVIII secolo a Varese e nel circondario, ma anche in terra piemontese.
A tal proposito, si confronti l’immagine gratulatoria del prelato Benedetto Landriani (opera di Salvatore Bianchi e conservata presso l’Ospedale di Busto Arsizio), curato della collegiata bustese per quarantatre anni4. Il noto prelato porta nella mano sinistra un cartiglio: “Aff.mo/ Al Mo Illre Sig. Come Fr(at)ello il Sig./Benedetto Landriani Can.co Curo di S. Gio./Protonotario Foraneo di Busto, e Pieve/[Bus]to Grande/1728”.
Tuttavia la ripetizione di modelli fissi, lo stato conservativo non ottimale delle opere varesina e bustese e qualche scarto qualitativo, fisiologico nel genere della ritrattistica, non ci permettono di andare oltre il semplice e approssimativo accostamento.
(Ritratto del Prevosto Benedetto Crespi - Pittore Gerolamo Daverio Luzzi)
L’ovale, che ritrae il Prevosto Benedetto Crespi versa in cattivo stato conservativo e sulla superficie sono visibili numerosi abrasioni e cedimenti della tela, notevolmente imbarcata sebbene l’opera sia stata presumibilmente restaurata all’inizio degli anni Sessanta.
Derivato da una precedente opera, come sembra suggerire un passo di Luigi Borri qui sotto riportato, il ritratto in esame è stato presumibilmente eseguito quando il prevosto Crespi era ancora in vita, quindi in un arco cronologico compreso tra 1814 e 1858.
Restano forse di parziale ausilio diverse notizie biografiche reperibili a proposito del munifico benefattore Crespi che nacque a Milano il 10 luglio 1772 da Gian Francesco ed Elena Magni.
Benedetto Crespi fu, stando a quanto ci riporta ancora il Borri, uno dei discepoli di Giuseppe Parini presso la Scuola Braidense. Entrò nell’ordine religioso dei Domenicani nel 1792 e intorno al volgere del secolo vestì gli abiti sacerdotali. Essendo stato assegnato provvisoriamente alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, venne trasferito dal dicembre 1811 all’ottobre 1813 nella Pieve di Asso presso Civenna, come coadiutore del parroco varesino don Albano Dralli e successivamente, dal dicembre del 1813 al marzo 1814, come vicario a Robecco sul Naviglio, nella Pieve di Corbetta.
Dopo poco tempo arrivò a Varese, chiamato da Monsignor Sozzi alla Prepositura della città come vicario foraneo.
Avendo ereditato una parte dei beni del fratello, il 15 settembre 1844, donò 12.000 lire milanesi da destinare alla costruzione di una “Casa di Ricovero” per i poveri e i bisognosi. Il testamento venne rogato il 31 maggio 1846 dal notaio varesino Domenico Pasetti. Benedetto Crespi morì il 12 agosto 1858.
Tornando all’opera qui presa in esame, secondo quanto ci riferisce ancora il Borri, il ritratto del Crespi venne “dipinto a olio da Gerolamo Daverio Luzzi, da Daverio, sopra un altro rassomigliantissimo, a pastello, esistente all’Asilo Infantile di Varese, da lui pure beneficato, fatto nel 1846 da Gian Battista Zali, da Varallo Sesia, autore degli affreschi della maggior navata e della cupola della Basilica che il generoso Prevosto aveva fatto eseguire a proprie spese”.
Ad oggi, purtroppo, non è stato individuato il ritratto a pastello menzionato dal Borri, ma sovviene ad una conferma circa l’identità dell’effigiato della tela dell’Ospedale di Varese, la riproduzione di una litografia all’interno di un piccolo “memoriale a stampa” in onore del “sacerdote nobile Benedetto Crespi”. Qui il nobile prevosto è riconoscibile con le medesime fattezze del ritratto ad olio dell’Ospedale, ma in una diversa posa.
Compromesso dal recente intervento manutentivo, non limitato a semplice pulitura, il dipinto qui preso in esame risulta caratterizzato da lineamenti piuttosto tesi e da colori accesi.
Lo stato attuale dell’opera risulta corrotto soprattutto a livello del volto del benefattore e molto marcato, in quanto a incisività fisionomica, tanto da rendere problematico l’accostamento con l’altro ritratto firmato e datato da Gerolamo Daverio Luzzi (pittore i cui lineamenti biografici risultano ad oggi notevolmente sfuggenti) e presente nella quadreria di Varese: quello del fisico Giuseppe Broggi (Inv. n. 67).
(Ritratto di Rachele Rovera - Pittore Guido Tallone)
La protagonista è raffigurata in abito nero e con ampio collo di pizzo, contro un fondo che ritrae un interno domestico borghese. La superficie del dipinto, in buono stato conservativo, è costruita con morbidi e sfumati tocchi di colore e con una pennellata libera e frazionata, che Tallone deriva dalla ritrattistica del padre Cesare, morto nel 1919, e tra i più affermati autori dell’inizio del secolo.
L’opera dell’Ospedale di Circolo, plasmata e sfaldata nel colore, si avvicina alle numerose tele eseguite dal giovane Tallone per l’Ospedale Maggiore di Milano, e soprattutto al Ritratto di Natalina Pizzamiglio Zanni eseguito tra 1930 e 1931 e a quello di Teresa Garbagnati Junk portato a termine tra il 1931 e il 1932.
Molto apprezzata dall’alta borghesia lombarda, la pittura di Guido Tallone rispondeva alle richieste dei committenti per la sua maniera piacevole, per l’interpretazione dei ritrattati consona al loro ruolo sociale e per la stesura morbida in evidente rapporto con la ritrattistica lombarda di fine Ottocento.
Tuttavia, è significativo notare che più volte le sue opere suscitarono le critiche della Commissione Artistica del nosocomio milanese, che vedendole «trascurate nell’esecuzione», si dimostrava preoccupata di una più precisa resa iconografica del soggetto.
Fu proprio questo il caso del ritratto poc’anzi menzionato, che immortala l’anziana benefattrice Teresa Garbagnati Junk3, sul quale il Tallone dovette ritornare per apportare le dovute modifiche e rendere così il dipinto più preciso nella resa dell’effigiata.
Grazie ai suddetti confronti e alle indicazioni fornite dai documenti, cui si farà cenno in seguito, è possibile determinare la datazione del dipinto varesino esaminato in queste righe a ridosso della fine degli anni Venti – inizio degli anni Trenta del XX secolo.
Probabilmente l’effigiata è da identificarsi nella moglie di Cornelio Rovera (per il quale si rimanda alla relativa scheda), Rachele Lucca (1854-1929), nominata nel testamento del defunto marito insieme ai figli adottivi ed ai nipoti.
Come avremo modo di ribadire in seguito, infatti, la storia della liberalità ospedaliera in Varese è spesso incarnata da intere famiglie che, con munifici lasciti, perpetuano nei decenni il ricordo del proprio nome. È questo il caso della famiglia Rovera, distintasi per numerose donazioni a favore di enti assistenziali e di cura.
In questa sorta di staffetta di carità familiare, i primi in ordine di tempo, furono i fratelli Cornelio e Luigi Rovera che vollero promuovere l’istituzione di un asilo infantile in Oltrona al Lago, dedicato alla loro madre Santina Gattoni. La prima pietra dell’istituto per minori venne solennemente posta il 9 settembre 1906 dai due giovani, e all’epoca fidanzati, Rosa Rovera, figlia adottiva di Cornelio e Carlo Arconati. Cornelio Rovera morì il 12 novembre 1919 e con testamento olografo 1° marzo 1918 messo agli atti con verbale del 14 novembre 1919, nominava eredi i figli adottivi Antonio e Rosa, col vincolo di usufrutto parziale vitalizio a favore della moglie Rachele Lucca (1854-1929).
(Ritratto del Cavalier Renzo Fidanza - Pittore Oreste Albertini)
Celebre soprattutto per le sue vedute di montagna, Oreste Albertini viene ricordato per essere stato anche “ottimo ritrattista”.
Il dipinto che ritrae il cavalier Renzo Fidanza sembra verosimilmente tratto da una fotografia, ad oggi purtroppo non rinvenuta.
Nell’effigiare il munifico benefattore, tuttavia, il pittore non rinuncia ad un’ampia veduta di paesaggio prealpino sulla quale si staglia, per contrasto, la figura abbigliata con una scura divisa militare. Il dipinto, in discreto stato conservativo, è costruito tramite un riuscito contrasto chiaroscurale che rende, con discreto realismo, la tridimensionalità del volto.
Nativo di Comerio, Renzo Fidanza nacque nel 1872, da Carlo e Maddalena Virginia.
Visse in S. Ambrogio Olona, dove ricoprì la carica di sindaco e dove morì, il 26 marzo 1925. Risulta a lui intestata una ditta di compravendita di legnami situata in Varese, in via Dandolo n. 82.
Con testamento redatto in data 15 marzo 1924, il Fidanza disponeva che la metà dei suoi beni immobili e mobili situati nei Comuni di Cittiglio, Gemonio, Brenta e S. Ambrogio Olona, fosse destinata ad opere di beneficenza, lasciando però l’usufrutto alla moglie Lavinia Jemoli.
Nei documenti inediti di proprietà dell’Ente ospedaliero di Varese e pubblicati in questa sede, è lo stesso Fidanza a precisare che: “Quanto posseggo in stabili in Comerio lascio ai miei nipoti Carlo Maria, Santo, ed eventualmente ad altro figlio maschio avesse a nascere, figli di Elio Fidanza, eccetto la vignetta vicino all’Asilo Infantile che lascio all’Asilo stesso. Rimanente, sia stabili in Cittiglio, Gemonio Brenta e St. Ambrogio, denari, mobili e quant’altro mai possegga alla mia morte; per metà a mia moglie, Lavinia Jemoli, di disporre a suo talento; per l’altra metà per opere di beneficenza a nome mio e di Lavinia in nostra memoria. Questa seconda metà, goderà la rendita mia moglie Lavinia sino alla sua morte, nel caso non si rimaritasse, nel qual caso sarà subito devoluta in beneficenza a solo mio nome e principalmente per soccorsi a istituti per bambini o vecchi bisognosi. Esecutori di questa mia volontà l’Ing.re Carlo Piana e Jemoli Temistocle miei cognati, ai quali si devolveranno alla morte di Lavinia L. 20.000 = ventimila ciascuno ed all’Ing.re Piana si condonerà subito il mutuo fattogli di L. 10.000 = diecimila. In Fede Fidanza Renzo P.S. In caso Elio Fidanza avesse qualche figlia che non avesse a maritarsi e che avesse a restare con qualche fratello, dovrà restare compartecipe nel lascito ai propri fratelli. 15 marzo 1924. Fidanza Renzo”.
La Jemoli, intanto, domandava di pervenire alla tacitazione dei diritti spettanti alla Congregazione di Carità di Sant’Ambrogio Olona, pagando la somma di lire ottantamila oltre gli interessi o redditi che sarebbero maturati sulla somma totale. L’offerta di transazione presentata dalla vedova, “oggetto di studio serio e ponderato”, venne infine approvata dalla Congregazione, con delibera datata 4 settembre 1926.
(Ritratto del Cavalier Romeo Lanfranconi - Pittore Amerino Cagnoni)
La tela ritrae il benefattore Romeo Lanfranconi appoggiato col gomito ad una balaustra al di là della quale si scorge il paesaggio prealpino del varesotto. La pennellata corposa del Cagnoni fissa, in una posa anticelebrativa, il personaggio con lo sguardo velato dall’ombra del cappello. Nonostante il dipinto necessiti di un’accurata pulitura, è possibile apprezzare nell’inquadratura della scena e nella resa somatica del benefattore, l’insegnamento di Giuseppe Bertini di cui il Cagnoni fu allievo all’Accademia di Brera.
Sovvengono, ad una più approfondita comprensione del dipinto, i raffronti con il ritratto di Luigi Gianetti, conservato presso la Quadreria dell’Ospedale Maggiore di Milano, e con l’ancor più antico ritratto di Enrico Cernuschi dell’Istituto Trivulzio, con i quali il dipinto dell’Ospedale di Varese condivide i medesimi esiti di scioltezza e di buona qualità esecutiva.
L’immagine gratulatoria, che si rivela quale buon esito di riproduzione da un’immagine fotografica,
ritrae il munifico sindaco di Luvinate, Romeo Lanfranconi nato a Pellio Superiore, nella val d’Intelvi il primo dicembre 1847, da Gian Battista e Maria De Romeri.
Romeo Lanfranconi seguì il padre in Ungheria, collaborando a notevoli imprese di costruzioni a Budapest e lungo il corso medio del Danubio. Rientrato in Italia, prese stabile dimora a Casciago e sposò nel 1879 Emilia Schoch, di Milano. Per due mandati fu sindaco del comune di Luvinate, dal dicembre 1883 all’aprile del 1887 e successivamente, dal febbraio 1896 all’agosto 1905.
Rimasto senza discendenza, donò una considerevole parte del suo patrimonio a favore del proprio luogo d’origine, fondando un asilo a Pellio Superiore. Nel 1904 elargì duemila lire per un luogo di educazione in Varese; l’anno dopo, sottoscrisse una donazione di quattromila lire a favore dell’Asilo infantile di Casciago.
Tra i destinatari dei cospicui lasciti sottoscritti dal Lanfranconi figura anche l’Ospedale di Varese cui venivano destinate ventunomila lire, con l’obbligo di mantenere un letto gratuito “in perpetuo, a favore dei poveri di Velate Varesino, affetti da malattia acuta, senza distinzione di sesso, e senza limiti di età; con che il Comune di Velate si obblighi a provvedere alla manutenzione della Cappella della famiglia di esso nel Cimitero di Velate, dalla morte di lui fino in perpetuo”.
Romeo Lanfranconi morì il 22 settembre 1906, dopo aver testato alla presenza del notaio Ettore Parietti di Castiglione Olona.
Secondo le sue volontà, venne cremato e sepolto accanto alla tomba di famiglia nel cimitero di Velate. Il monumento che raccoglie le sue spoglie venne scolpito in marmo bianco da Eugenio Pellini.
Fu lo stesso comune di Velate, infine, a commissionare ad Amerino Cagnoni il dipinto che ritrae il noto filantropo, pagando cinquecento lire.
(Ritratto di uomo con parrucca - Pittore lombardo)
Medesima la sorte toccata ai due dipinti, rubati nel 2001, dei quali il primo (Inv. n. 11) però è recentemente rientrato nella quadreria dell’Ospedale.
Le tele, ascrivibili ad ambito lombardo, restituiscono due differenti effigi che nella loro nitidezza ed austerità, risultano d’una diligenza volutamente sostenuta. Le figure, vestite in compassati abiti neri, sono tutte raccolte in una composta fissità.
Lo stato conservativo del solo ovale che è stato possibile esaminare direttamente, risulta decisamente mediocre, principalmente a causa dei danni subiti dal recente furto. Ritornata nella collezione della Quadreria dell’Ospedale, la tela, infatti, presenta in diversi punti cadute di colore e guasti nel supporto di tela. Contribuisce, ad aumentare le difficoltà di giudizio e di piena comprensione dell’opera, la mancanza di iscrizioni, un tempo certo visibili sulla missiva in mano al prelato, lacuna questa aggravata dalla mancanza di iscrizioni o ganci biografici riguardanti il benefattore.
I due ritratti, conformi alla tipologia ospedaliera in auge fra Sei e Settecento, presentano i benefattori nell’atto di esibire un documento allusivo all’ufficio ricoperto, sulla scorta degli esempi coevi presenti alla Ca’ Granda.
Se però la prima tela si distingue per una più matura impostazione come pure per una ferma condotta dello studio fisionomico, avvicinandosi ai modi, certo più aulici, di Antonio Lucini, di cui abbiamo notizie a Milano tra il 1702 e il 1733, la seconda opera è caratterizzata da qualche secchezza esecutiva ed immaturità dei dati tecnici, tanto da farla collocare nel solco più arcaico tracciato da Giacinto Santagostino (attivo a Milano tra il 1646 e il 1688), presente con ritratti presso la quadreria dell’Ospedal Maggiore di Milano.
(Ritratto di Scipione Riva Rocci - Pittore Giuseppe Montanari)
Il dipinto, commissionato al pittore Giuseppe Montanari in occasione della ricorrenza del centenario della nascita del dottor Riva Rocci, non ritrae solo un benefattore che ha elargito parte delle proprie sostanze all’ente sanitario, ma un lungimirante direttore sanitario e un ricercatore esemplare che, attraverso l’esercizio della propria professione, fece progredire la scienza medica.
L’opera, di ridotte dimensioni contrariamente a quanto accade per la gran parte dei dipinti della Quadreria del nosocomio varesino, ritrae il celebre medico fino all’altezza della cintola e riproduce con ogni probabilità un prototipo fotografico. A segnalarci la professione medicale dell’effigiato intervengono il camice bianco e il titolo del volume in primo piano Fisiopatologia del cuore e dei vasi.
In occasione della tradizionale esposizione dei quadri dei benefattori varesini, allestita nel 1963 nelle sale di Villa Tamagno, nel giorno della festa di San Giovanni, il dipinto venne menzionato dal quotidiano La Prealpina come “nuovo ritratto, quello del prof. Riva Rocci dipinto da Giuseppe Montanari”.
Scipione Riva Rocci nacque il 7 agosto 1863 ad Almese (Torino), figlio del medico del paese. Conseguì la laurea a Torino e si dedicò con passione alla ricerca sotto la direzione di Carlo Forlanini. Grazie all’incentivo di quest’ultimo, Riva Rocci pubblicò nel 1890 uno studio sulla tubercolosi intitolato Contributo agli studi sulla natura del processo tisiogeno dei polmoni.
Fu docente di patologia medica presso la facoltà torinese; si dedicò a studi sul diabete, sulle intossicazioni gastriche, sulle malattie pediatriche, sulle malattie acute da infezione. Interessatosi di pediatria, fondò nel 1908 la Clinica pediatrica a Pavia che diresse fino al 1921.
Alle sue geniali intuizioni si deve l’invenzione dello sfigmomanometro, presentato al mondo scientifico il 10 dicembre 1896 sulla Gazzetta medica di Torino. Immediata fu la diffusione di questo strumento semplice e pratico, soprattutto nelle sale operatorie ove il suo utilizzo si mostrò utilissimo per limitare i decessi durante gli interventi chirurgici. Riva Rocci, inoltre, non volle mai brevettare il suo sfigmomanometro, convinto che fosse conquista-patrimonio della medicina tutta.
Nel 1900 venne nominato direttore dell’Ospedale di Varese che diresse fino al 1928 quando per motivi di salute fu costretto a dare le dimissioni, trasferendosi in seguito prima a Milano e poi a Rapallo.
Le sue conoscenze in ambito tubercolare furono tenute in gran conto quando la Congregazione di Carità decise di costruire un padiglione per gli ammalati da tubercolosi, come stabilito dal testamento del benefattore Silvio Macchi nel 1920. Il nuovo tubercolosario venne inaugurato nel 1929 ma Riva Rocci, intanto, aveva dovuto lasciare, verso la fine del 1928, l’ospedale che aveva creato e diretto, anche se venne posto in congedo fino al 15 marzo 1929 in qualità di consigliere autorevole. Nel 1930 venne istituita, presso l’Ospedale di Circolo, una fondazione scientifica intitolata a suo nome, con l’istituzione di un premio per il personale medico dell’ente ospedaliero ritenuto meritevole. Scipione Riva Rocci morì il 15 marzo 1937 e fu sepolto nel cimitero di San Michele di Pagana, nei pressi di Rapallo.
A lui venne dedicata la nuova divisione di Medicina Generale appena realizzata nell’allora padiglione centrale. A perpetuarne il ricordo, una lapide commemorativa, inventariata in occasione della recente catalogazione dei beni dell’azienda ospedaliera: “In questo ospedale/ il prof. Dott. Scipione Riva Rocci/ per ventotto anni prodigò ai sofferenti/ le cure della scienza medica che egli coltivava/ nella assiduità dello studio/ e ai giovani insegnava/ con amore di padre e ardore di maestro/ 1900 – 1928/ Per deliberazione consigliare 4 – 6 – 1937”.
(Ritratto di Susanna Spitzer - Pittore Elena Losco Rinaldi)
Il dipinto, firmato dalla pittrice Elena Rinaldi di Firenze, si segnala per un’impostazione decisamente tradizionale e compresa nell’alveo dei ritratti d’occasione degli anni ’60. Pennellate decise, toni accesi e contorni stagliati connotano la massiccia figura della benefattrice, rappresentata contro un fondo verde smeraldo. Tuttavia, l’insistito piacere nel descrivere la morbidezza della pelliccia, certe secchezze pittoriche e l’atteggiamento teatrale della figura quasi incrinano la superficiale piacevolezza del ritratto.
Il dipinto qui discusso ritrae la munifica benefattrice Susanna Lizzy Spitzer, nata a Vienna il 3 maggio 1922 e deceduta a Varese il 10 gennaio 1967 che, con testamento olografo, beneficava l’ospedale di Circolo con beni immobili, titoli e crediti per un valore complessivo di 16 milioni di lire.
Esemplato su una fotografia (al momento non rintracciata), come attesta un inedito documento dell’Archivio dell’Azienda Sanitaria, ed eseguito ad un anno dalla morte della signorina Spitzer, il dipinto venne commissionato alla pittrice il 7 giugno del 1968, al prezzo di Lire 200.000, con deliberazione del Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale di Circolo.
Allo stato attuale degli studi, non si possiedono notizie riguardanti l’autrice della tela che non compare tra gli iscritti del Circolo degli Artisti di Varese in quel torno di anni e che anzi sembra aver ricevuto in terra varesina, la sola allogazione del ritratto della Spitzer.
(Ritratto di Teodoro Perabò - Pittore )
Ignorato dalla critica storico-artistica, l’ovale, che ritrae il munifico benefattore Perabò, è inedito e dimostra un interessante impianto compositivo che, in parte, si discosta dalle comuni iconografie dei ritratti gratulatori ospedalieri coevi. Per il suo carattere schietto e per il suo formato, si può ritenere che l’opera, bisognosa di nuovi studi e di una più circoscritta definizione attributiva, non dovette almeno all’inizio essere destinati alla Quadreria del nosocomio cittadino.
Il dipinto risulta essere stato rubato nel gennaio 2001. Come risulta dall'aggiornamento dell'Inventario dell’Ospedale compilato nel 1997, l’opera era collocata presso il Provveditorato - Ufficio Riunioni.
Teodoro Perabò, figlio di Carlo Giuseppe e di Cornelia Piantanida, nacque a Varese il 29 maggio 1678. Rimasto celibe, fu, come ci tramanda il Borri, ricoverato per diversi anni presso l’Ospedale di Varese “per ritirarsi dal mondo, ed acquistare quelle indulgenze, che sono state concesse da sommi pontefici a quelli che vanno a morire negli ospedali, e beneficano li medesimi luoghi”.
Sempre secondo quanto riporta il Borri, il 18 giugno 1727, dinanzi al pretore del borgo, ai deputati dell’Ospedale e al notaio Antonio Tommaso Albuzzi, il Perabò dettava le sue volontà, nominando quale erede universale delle proprie sostanze il nosocomio varesino.
Tra gli obblighi sottoscritti nel lascito testamentario si leggono anche quello di pagare seicento lire imperiali alla cappella della Madonna del Rosario nella Basilica di San Vittore, cinquanta lire alla confraternita varesina del Sacramento, e altre cinquanta a favore dei luoghi sacri della Terrasanta.
I beni indivisi col fratello Pier Paolo erano situati nei territori di Schianno, Gazzada, Morazzone e Caidate.
Il 16 settembre 1727 il Perabò faceva testamento lasciando numerosi beni a beneficio dell’Ospedale. Morì il 16 marzo 1728.
(Ritratto di Teresa Cassani Oggioni - Pittore Giuseppe Montanari)
Il ritratto di Teresa Cassani, ambientato da Giuseppe Montanari all’interno di un ricco salotto borghese – forse, come già ipotizzato da Sergio Rebora, con un’allusione alla villa di Induno Olona, oggetto dell’atto munifico della giovane benefattrice – dimostra diverse tangenze con altri ritratti femminili, firmati dal pittore nativo di Osimo.
L'elegante protagonista indossa un prezioso abito azzurro ed è accomodata con una posa disinvolta all'interno di un ambiente domestico.
Il fare monumentale dell’artista qui viene arricchito da ascendenze cézanniane e matissiane ravvisabili nell’evocazione di una nitida geometria delle forme (soprattutto nella figura della donna e nelle pesanti mantovane che cadono a filo di piombo) e nella linea ritmica declinata nelle forme dell’arabesco (dalla carta da parati al tappeto).
Il medesimo gusto per l’ornamento e lo stesso trattamento piatto dello spazio e delle superfici si ritrovano in due opere varesine del Montanari, collocabili entro il quarto decennio del XX secolo: Bimba con gatto (1935) e Bimba in poltrona (1939).
Tornando al nostro dipinto, è da ipotizzarne una collocazione cronologica intorno al 1930, a pochi anni dalla morte della Cassani.
Nata a Induno Olona nel 1856 da Giuseppe Cassani, Teresa si trasferì a Milano dopo essersi sposata con il cavalier Luigi Oggioni. Rimasta vedova, si ritirò a Induno Olona, nella bella villa di sua proprietà, dove trascorse gli ultimi anni di vita, fino al 22 settembre 1927.
Essendole premorte le figlie Teresina e Virginia, nelle sue disposizioni testamentarie olografe la vedova Oggioni nominava erede universale dei propri beni la Congregazione di Carità di Induno Olona. Le autorità del tempo istituirono l’Opera Pia Legato Teresa Cassani Oggioni, con l’incarico di fondare un istituto per anziani indigenti e infermi, residenti nel comune di Induno Olona.
Tuttavia nel 1927 quest’ultimo fu aggregato alla città di Varese, della quale divenne frazione periferica, con il risultato che l’Amministrazione comunale di Varese non poté adempire le prescrizioni del legato, poiché in città già rispondeva ai bisogni assistenziali la casa di Riposo Molina.
I beni dell’Opera Pia Legato Teresa Cassani Oggioni, il cui valore superava la somma di 150.000 lire, furono allora affidati alla gestione della Congregazione di Carità di Varese, nel tempo trasformata in Ente Comunale di Assistenza.
(Tranquillo Magnani - Pittore Federico Gariboldi)
Il ritratto gratulatorio che immortala a figura intera il cavalier Magnani, si rivela ancorato ad un’impostazione tradizionale, seppur giocato su un interessante contrasto tra i toni caldi degli arredi e quelli sordi del fondo, sul quale si staglia la figura del protagonista.
Spiccano per una convincente ed efficace definizione, i particolari della testa e delle mani del benefattore, sebbene convenga ribadire come in questo ritratto la ricerca d’ambiente prevalga su quella psicologica dell’effigiato.
Sembra evidente che un’accademica e sfruttata tipologia iconografica sia l’ambito in cui si inserisce questa tela firmata da Federico Gariboldi.
Nonostante il taglio compositivo risulti estremamente essenziale e fornisca ben pochi elementi stilistici di confronto e di verifica, l’immagine che ritrae il cavalier Magnani si dimostra interessante per il riuscito gioco chiaroscurale e la sincera fedeltà al dato reale e per qualche confronto con la produzione pittorica di Alcide Davide Campestrini, attivo per la quadreria dei benefattori dell’Ospedale Maggiore di Milano.
Per quanto concerne il benefattore, ad oggi non si possiedono notizie a suo riguardo ma è probabile che qualche traccia cronologica possa emergere da una più approfondita indagine tra i rami della famiglia Magnani di Varese (si ricordi che nella quadreria del nosocomio cittadino si conserva il ritratto di Anna Novak e Angelo Magnani, forse fratello del benefattore ricordato in queste righe).
(Ritratto dell'Avvocato Vittorio Tallachini - Pittore Federico Gariboldi)
Caratterizzata da una maniera particolarmente sobria, sia nella posa che nell’ambientazione, la figura dell’avvocato Vittorio Tallachini si staglia contro un fondo che riproduce la decorazione di una tappezzeria e viene individuata, nel proprio ruolo professionale, dalla toga e dal testo del codice civile che tiene con la destra.
I contorni marcati e sicuri dell’effigiato vengono resi dal Gariboldi con evidenza e precisione mediante pennellate minute e tinte realistiche.
Rispetto alle opere degli anni Venti (soprattutto il ritratto di Cornelio Rovera, per il quale si rimanda alla relativa scheda), l’opera esaminata in queste righe raggiunge esiti di realismo e di libertà esecutiva di maggiore maturità: la posa dell’effigiato si fa più naturale ed anticelebrativa, i contorni più docili e morbidi. Cronologicamente sembra che l’opera possa essere collocata al terzo, quarto decennio del XX secolo.
Allo stato attuale purtroppo nulla sappiamo riguardo alla biografia dell’effigiato e nessuna delle pubblicazioni monografiche sull’Ospedale della città di Varese riporta il nome di Vittorio Tallachini tra i benefattori. Tuttavia è possibile rintracciare nelle carte dell’ente ospedaliero, la testimonianza di una cospicua donazione fatta nel 1892 da Tallachini Angela Felicita e Maria Anna, sorelle di Masnago. Con lettera 2 maggio 1892 le due congiunte intesero ricordare la memoria dei defunti loro fratelli Enrico e Cesare del fu Francesco, offrendo al Civico Ospitale la somma capitale di Lire 14mila “a sollievo dei poveri ammalati del comune di Masnago per l’impianto ed il perpetuo mantenimento di un letto che si intitoli ai nomi di Enrico e Cesare Tallachini”.
(Ritratto di uomo a mezza figura con libro - Pittore lombardo)
Il giovane benefattore, allo stato attuale degli studi purtroppo ancora privo di nome, viene ritratto in una spavalda e disinvolta posa, con la sinistra puntata sul fianco e il pollice della mano destra a tenere il segno di un piccolo volume.
Per quanto concerne il riferimento cronologico, sembra plausibile una datazione entro il primo quarto del XIX secolo e comunque non oltre la prima metà dell’Ottocento.
L’opera, infatti, visibilmente sensibile alle formule neoclassiche, coniuga il gusto per una libera composizione, ad una salda maniera fatta di netti contrasti luministici, ottenendo in tal modo uno dei più qualificati risultati della Quadreria dell’A.O. Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi.
Per il nitore della linea e la cromia smaltata, il dipinto, riconducibile a scuola lombarda, è avvicinabile alla maniera di Pelagio Pelagi e, ancor di più, alla prima fase di Giuseppe Molteni, nella quale l’artista si dimostra maggiormente ancorato all’esempio neoclassico.
Di quest’ultimo autore si porta a confronto il ritratto di Carlo Dell’Acqua, opera giovanile del Molteni, databile non oltre il 1829 e conservata presso la Quadreria dell’Ospedal Maggiore di Milano.
Come nell’esempio varesino, anche nel dipinto del celebre autore lombardo, un insieme di compassate pennellate costruiscono la figura del benefattore che si distingue per originalità e libertà esecutive.
Ad oggi, nulla si conosce sull’autore del dipinto. È singolare però notare come già nelle mostre risalenti alla fine degli anni Cinquanta, allestite dal pittore Carlo Cocquio nel salone della Camera di Commercio di Varese, il dipinto venisse accostato specularmente al ritratto di uomo con cartiglio (Inv. 57), forse perché avvertito come similare nelle caratteristiche stilistiche e compositive.
Ad una più attenta analisi, effettivamente, i due ritratti (per il secondo del quale è proposta in questa sede l’identificazione del benefattore con Antonio Caimi) rivelano molte vicinanze esecutive e una condotta che sembra risentire di comuni fonti artistiche, tradotte in una pittura tersa e smaltata con luci nette e ombre fermamente scandite nel solco della più schietta tradizione neoclassica.
Solo nuove e più approfondite ricerche potranno gettare luce sulla vicenda di queste tele per le quali vengono tracciate in questa sede solo le coordinate principali.